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Champions League, analisi del rendimento delle italiane | Una sola agli ottavi, si può parlare di fallimento?

Thiago Motta, allenatore della Juventus - fonte Lapresse - mondosportivo.it

Thiago Motta, allenatore della Juventus - fonte Lapresse - mondosportivo.it

È arrivata l’ora di chiudere il dibattito tra risultatisti e giochisti. I crudi playoff della nuova Champins League hanno spaccato le acque in due nuovi mondi: “vogliosi” vs “svogliati”.

Quanto fa soffrire nel post partita ascoltare i propri allenatori e giocatori ammettere candidamente che gli altri hanno giocato meglio e “voluto” di più la qualificazione? Lo dice Locatelli dopo la sculacciata di Eindhoven. Lo ammette Djimsiti con estrema sincerità. Lo recita Conceicao nel desolante post Rotterdam: solo con la qualità si va poco lontani. Theo e Toloi rosse ciliegine di vergogna sulla rabbia montata dei tifosi. Nella playlist “L’eliminazione” troverete titoli familiari: l’approccio, la determinazione, i duelli vinti, la mentalità, l’ambiente, gli infortuni, la condizione.
Mettete la riproduzioen casuale e vi sembreranno tutte scritte dalla stessa mano che misura la qualità sulla base del monte ingaggi e delle statistiche. Figlie della nuova narrazione del calcio come business d’impresa che ci ha trascinato in una desolante valle di lacrime. Valutiamo le prestazioni dei giocatori in base al loro ingaggio o al loro valore di cartellino. Consideriamo le potenzialità di un giovane in termine di plusvalenza. Compriamo calciatori con l’algoritmo.

Formule che non potranno mai distinguere tra la il grado di competitività e l’avidità di quel bravissimo calciatore.
Giusto che a darci una lezione di economia reale siano i maestri del commercio olandesi e belgi. Brugge, Feyenoord e Psv hanno una moneta di scambio che in Italia non si vede più: “la voglia”. Lavorano su quello più che sulle transizioni. Cercano quei ragazzini che a scuola si arrabbiano se il compagno di banco prende un voto più alto. Altro che togliere i voti per non provocare ansia. Cercano quei ragazzoni che non vogliono manco perdere la gara a chi sputa più lontano. Altro che fare spogliatoio. Atalanta, Juventus e Milan hanno peccato di superbia. Più blasonate, più ricche, più fighe. Sono scese nei Paesi Bassi con lo stesso sdegno della ricca signora che deve viaggiare in seconda classe. Hanno pensato che bastasse lo sguardo, dall’alto in basso, per mettere in soggezione dei comuni pendolari. All’Atalanta è andata di traverso in Belgio anche per mano dell’arbitro, ma al ritorno è impallidita davanti alla velocità degli amichetti di De Ketelaere. Il Milan pensava che il ratto di Gimenez bastasse per mettere in scacco un Feyenoord senza allenatore e pieno di artisti senza parte. La Juve si è accomodata sul ricordo delle due vittorie in casa e sulle bollicine del Derby d’Italia.

Theo Hernandez/ fonte Lapresse- mondosportivo.it

Seppur con nuvole diverse il panorama è sempre lo stesso: mancano i vincenti.

Del Milan post Scudetto sono rimasti solo Maignan, Theo, Leao e Tomori e sembra che quell’assaggio di vittoria invece di stimolare l’appetito, abbia procurato un’indigestione. Mettici pure la Supercoppa vinta e chissà quando finiranno di digerire. Stessa roba in casa Juve. Al grido di Allegri-out sono stati pescati a strascico tutti gli ex del vecchio blocco. L’ultimo, Danilo, che mette in fila tutti i calciatori attualmente in rosa, cacciato senza riguardi. Hanno fatto a brandelli quel delicatissimo l’impianto di regole e comportamenti alla base della mentalità vincente. Dal “vincere aiuta a vincere” a “cambiare per vincere”. Così Milan e Juventus hanno messo in atto una cancel culture in nome di una rivoluzione senza manifesto. Guidati da truppe di ragazzi senza medaglie al merito, consapevoli che per come gira oggi il mondo, un posto dove scucire un altro ingaggio milionario c’è sempre. Svogliati e felici.