Come in un videogioco, Novak Djokovic ha completato il tennis al cento per cento. Avete presente Super Mario alla ricerca della principessa Peach? Ecco, la principessa del tennista serbo é stata la medaglia d’oro olimpica. L’ultima gemma di una carriera leggendaria per diventare ufficialmente il giocatore più vincente di questo sport.
Nole. E basta. Come Roger, ma anche come Diego, Kobe, LeBron, Usain. Basta il nome quando sei il goat, il greatest of all time, il più grande di tutti i tempi.
Ora non ha più nulla da chiedere al tennis. A Parigi Djokovic ha messo in campo tutto, si è quasi “trattenuto” per sette mesi, nascosto. Tutto per dare il meglio qui, e ci è riuscito senza esitazioni, con le armi e soprattutto la sagacia dei giorni migliori. E l’ha fatto a 37 anni, da sfavorito e su una superficie non esattamente favorevole. In uno stadio dove due mesi fa il suo menisco fece crack, contro un atleta che non solo ha 16 anni (sedici) meno di lui, ma è anche uno dei talenti più brillanti che il tennis abbia mai avuto, il fiore all’occhiello della sua generazione. È tornato su questo campo e lo ha fatto, ha battuto quel talento generazionale dopo che, nel loro precedente incontro, ne era stato surclassato proprio nel suo giardino, a Wimbledon, in finale. Lo ha fatto con due tie-break da manuale del tennis, culmini di due set dall’intensità spaventosa. Lo ha fatto in una delle stagioni per lui più complicate e coi pronostici a sfavore.
Nel 2015-16 sembrava quasi naturale che succedesse. Ci sono voluti altri otto anni, ma alla fine la missione l’ha compiuta. Giocatore senza una logica, per noi umani. Eppure l’abbiamo visto sfidare e battere avversari, leggi della fisica e del tempo. Voleva il titolo di giocatore migliore e più vincente di sempre, e anche quello ce l’ha. Ma è quasi riduttivo, perché non coglie appieno le pieghe della sua grandezza. Ha vinto l’unico titolo importante che ancora gli mancava e che sognava di vincere. Ha realizzato il suo sogno e quello del suo popolo. Ha trovato l’ennesimo Graal dell’immortalità sportiva. Le sue lacrime ieri erano pure e autentiche. Ma, non ce ne voglia, non pensi nemmeno lontanamente di smettere. Allora a piangere saremmo noi.