Umberto Caligaris esordisce in Nazionale ad appena vent’anni, in occasione della partita amichevole contro l’Austria del 15 gennaio 1922. Ha dimostrato di essere un terzino polivalente e talentuoso, un elemento affidabile e di sicuro avvenire. Nonostante la giovane età è già capitano della sua squadra, il Casale, con cui ha cominciato a giocare due anni prima, quando è stato scoperto durante un torneo regionale. Caligaris viene apprezzato dalla commissione tecnica e viene convocato regolarmente, anche se entra in competizione con De Vecchi e Rosetta, due vere e proprie istituzioni. Partecipa a due Olimpiadi nel ’24 e nel ’28, vincendo una medaglia di bronzo in quest’ultima edizione. Il 1928 è l’anno in cui la sua carriera è giunta a una svolta: lo ha acquistato la Juventus, intenzionata a irrobustire le fasce difensive con lui e Rosetta.
In bianconero Caligaris non fatica ad ambientarsi e a diventare un punto fermo. Contemporaneamente, continua a essere impiegato anche in Nazionale: l’arrivo del nuovo commissario tecnico, Vittorio Pozzo, non sembra pregiudicare il suo impiego, tant’é che Caligaris scende in campo nella partita d’esordio del nuovo tecnico, il 6-1 inflitto al Portogallo. Nel 1930 fa parte della rosa che partecipa alla Coppa Internazionale e che vede vincitrice proprio l’Italia, davanti all’Austria. Pozzo lo stima e, nonostante sia ormai ultratrentenne, decide di includere il suo nome nella lista dei convocati per i campionati del Mondo del 1934. Tuttavia, non scenderà mai in campo e non potrà mai raggiungere l’agognato traguardo delle sessanta presenze in azzurro. L’ultima apparizione rimarrà un Italia-Austria del febbraio ’34, valevole per la Coppa Internazionale 1933-35.
Dopo una lunga militanza in bianconero, nel 1935 Caligaris lascia la Juventus e approda al Brescia, dove gli viene affidato il ruolo di allenatore-giocatore. L’annata non finisce nel migliore dei modi, visto che il club lombardo viene retrocesso in Serie B. Anche la stagione successiva non è particolarmente fruttifera, visto l’anonimo settimo posto finale. Ma soprattutto è un anno tremendo per la salute di Caligaris, che viene colpito da una grave forma di setticemia. Subisce molte operazioni e si salva solo grazie alla fibra eccezionale e a una grossa quantità di trasfusioni. Ma il suo fisico ne esce parecchio indebolito.
Ripresosi dalla brutta avventura, i medici gli sconsigliano di riprendere l’attività di allenatore, visto che il suo cuore sarebbe sottoposto a grandi sforzi. Incurante del parere medico, nel ’37 accetta l’offerta della Lucchese a stagione in corso, riuscendo a ottenere una miracolosa salvezza in A. Poi è la volta del neopromosso Modena, e ancora una volta Caligaris compie l’impresa mantenendo la categoria. Nel 1939 è tempo di fare uno step ulteriore: ad aspettarlo c’è la panchina dell’amata Juventus, lasciata vacante dal suo amico ed ex compagno di squadra Virgilio Rosetta. Tutto sommato la stagione è soddisfacente e termina con un buon terzo posto, dietro ad Ambrosiana-Inter e Bologna.
Nonostante le precarie condizioni di salute, nell’ottobre 1940 Caligaris decide di rimettersi per un giorno gli scarpini ai piedi e di partecipare a una partita di vecchie glorie juventine, tra cui gli amici Combi e Rosetta. È troppo forte l’attrazione del campo e l’idea di tornare a vestire ancora una volta l’amata maglia bianconera. Purtroppo, però, la scelta si sarebbe rivelata scellerata. Come riporta il quotidiano La Stampa, “Nel pomeriggio di ieri, era appunto sceso in campo, allo Stadio Mussolini, per una partita amichevole ed a scartamento ridotto coi vecchi compagni di giuoco. Qualche calcio, alcuni minuti dì lavoro, una corsa in avanti, e Berto si ferma. “Non sto mica tanto bene oggi”. Esce dal campo, si adagia a terra, impallidisce. I compagni lo portano all’Ospedale Militare, sito a due passi, non fa che peggiorare, muore”.
Uno dei più colpiti dalla morte di Caligaris è Vittorio Pozzo, che sulle colonne dello stesso quotidiano torinese ne tesse le lodi: “Un gladiatore fu Caligaris, l’energia e la volontà personificata. Il combattente nato. L’ambizione stessa che aveva di emergere, lo portava ad affrontare qualsiasi sacrificio, a fermamente volere, a correre qualunque rischio. Sul campo era un trascinatore, colla parola e coll’esempio. I suoi lineamenti duri, angolosi, volitivi – il fronte sempre bendato da un fazzoletto – trovavano diretta corrispondenza sul campo. Ambidestro, possedeva un rimando di una potenza spettacolosa. La specialità sua era il rinvio a forbiciata, per cui rimaneva un istante in aria come se stesse spiccare il volo. Veloce, sicuro di sé, deciso, non c’era avversario, per duro che fosse, che gli incutesse timore(…).
È morto sul campo, al suo vecchio posto di combattimento, come se di colpo avesse voluto tornare indietro di dieci anni. È morto giuocando in una formazione che proprio allineava Combi, Rosetta e Caligaris e che proprio vestiva la maglia bianconera, ha piegato il ginocchio dopo uno di quegli scatti pieni di generosità che lo portavano, ai suoi tempi, ad abbandonare, momentaneamente, la posizione di terzino per sostenere l’attacco e proiettare in avanti tutta la squadra. Nella disadorna camera dell’Ospedale Militare, in cui lo abbiamo lasciato, Berto ha chiuso con gli occhi colla maglia della Juventus indosso, in tenuta completa da giuocatore.
Addio, caro Caliga, compagno di tante lotte in difesa del nome d’Italia, atleta dal cuore grande e dai mezzi eccezionali. Domani, più di un ciglio si inumidirà alla notizia di questa tua improvvisa dipartita. Nessuno di coloro che hanno diviso con te le fatiche dello sport o che alle tue prodezze hanno assistito, ti dimenticherà, ne puoi star certo”.
(La Stampa, 20 ottobre 1940)