Le polemiche sull’operato arbitrale, dopo ogni giornata di campionato, sono scontate e inevitabili come il sorgere del sole. L’avvento del VAR e tecnologia annessa, tra l’altro, che avrebbe dovuto sopirle, ha invece contribuito ad alimentarle. Sul banco degli imputati, a questo giro, c’è Marco Di Bello, arbitro di Lazio-Milan, travolto dopo la gara che, come sappiamo, ha visto un numero di cartellini rossi e gialli decisamente oltre la media, oltre ad altre discussioni su presunti rigori non assegnati.
Il designatore arbitrale Gianluca Rocchi ha deciso con una lunga sospensione per il direttore di gara della partita di venerdì sera: non è piaciuta la gestione degli ultimi minuti della gara, con le espulsioni di Marušić e Guendouzi. “Sul controllo della partita l’arbitro ha avuto qualche problema” sono state le parole del designatore, che ha poi rivelato di avere avuto uno scambio privato con Di Bello.
Certo, se tutto si fosse limitato a un semplice passaggio di messaggini, come sembra da ciò che è emerso dopo la visione di Open Var su DAZN, saremmo di fronte a qualcosa che non va. Perché non si può sospendere un arbitro un mese senza averlo sentito di persona, al netto delle immagini, che hanno visto tutti.
Preso atto delle decisioni dei responsabili di quelle che, con la televisione in bianco e nero, venivano chiamati “Le giacchette nere”, bisognerebbe trovare il sistema per evitare che, in futuro, altri direttori di gara vengano travolti da serate di questo tenore. Al di là di fare in modo di alzare il livello, una delle idee che tornano ogni tanto di moda è quello del sorteggio arbitrale.
Gli arbitri, da sempre, sono contrari. Va detto che questa soluzione non viene adottata nei Paesi calcisticamente più evoluti, a sostegno del fatto che, probabilmente, non è ritenuta percorribile. Molto semplicemente, designatori e addetti ai lavori pensano, correttamente, che non tutti siano allo stesso livello per esperienza (e non solo), e che certe gare delicate debbano essere assegnati ai migliori. Perché imparzialità e bravura non sono sinonimi, e la prima è requisito sì indispensabile, ma non sufficiente: e la partita di Roma lo ha dimostrato.
Chi sostiene il sorteggio cita (ma a sproposito) la stagione 1984/85, col Verona campione e il Torino secondo, a dimostrazione della sconfitta dei “poteri forti”. In realtà, noi che c’eravamo (ahimè) ricordiamo un sorteggio all’interno di gruppi omogenei (spesso tre, più tardi sei) di partite ritenute dello stesso livello. Il designatore dell’epoca, D’Agostini, assegnava poi pochi arbitri ritenuti all’altezza delle gare a un numero ridotto delle medesima: non proprio un sorteggio integrale, dunque.
Il problema è il livello dei fischietti (va detto che registriamo polemiche feroci in tal senso anche in Svizzera, per parlare di un torneo che seguiamo in prima persona): se ci fosse omogeneità tra loro, e questa puntasse verso l’alto, dirigere Milan-Inter o Monza-Torino non farebbe alcuna differenza.
In realtà non è così, come sappiamo: i fuoriclasse della categoria sono pochi, al netto del fatto che non prendiamo neppure in considerazione l’assenza di buona fede di ciascuno di loro, dai piccoli campi a San Siro. Però, sicuramente, deve esistere un modo per alzare il livello.
Certo, dirigere una partita davanti a decine di migliaia di persone è difficilissimo, così come avere una personalità talmente forte da non venire travolta sia dal blasone delle squadre in campo che dal protagonismo. Ecco, questa, secondo noi, è la vera sfida che attende i vertici dell’AIA, e non solo. Ne va della credibilità complessiva del movimento.