I Pionieri del Calcio – Franco Bontadini, il medico celato
Era il 1910 e la Nazionale Italiana si accingeva a disputare la sua prima gara internazionale. Per l’esordio contro la Francia la Commissione Tecnica Arbitrale, capeggiata da Umberto Meazza, aveva diramato una lista di venticinque calciatori che si sarebbero giocati il posto. Tra questi c’era anche il diciassettenne Franco Bontadini, centrocampista del Milan. Sfortunatamente un infortunio non gli consentì di prendere parte alla storica partita contro la Francia. Bontadini ebbe comunque modo di rifarsi due anni più tardi, quando divenne capocannoniere della Nazionale ai Giochi Olimpici di Stoccolma del 1912.
Franco, il brutto anatroccolo
Franco era sempre stato un ragazzo particolare. Milanese, terzo di cinque figli, era considerato il più scapestrato. Il brutto anatroccolo della famiglia. Aveva coltivato una passione viscerale per il calcio, spesso tornava a casa con il corpo emaciato dai colpi subiti durante le sfide di pallone. Il suo innato talento era accompagnato da un carattere deciso e allo stesso tempo scanzonato. I suoi inizi erano stati nell’Ausonia, squadra del capoluogo lombardo, ad appena sedici anni. Lì si era fatto notare dai dirigenti del Milan, che dopo un’amichevole lo avevano convinto a vestire la maglia rossonera.
Non aveva fatto molte apparizioni ma le buone prestazioni gli erano valse la chiamata tra i “venticinque” azzurrabili. La stagione seguente passò ai cugini dell’Inter, con i quali cominciò la sua carriera vera e propria, a soli diciotto anni. Giocava a centrocampo, precisamente come interno destro. E nonostante fosse più lontano dalla porta rispetto a un attaccante, segnò come un attaccante: nel primo campionato con la maglia nerazzurra realizzò 14 reti in 18 partite.
Il sogno di diventare medico
Se in partita era sempre partecipativo, non si poteva dire lo stesso negli allenamenti. A volte non si presentava al campo e spariva misteriosamente dalla circolazione per qualche giorno. Destando preoccupazione tra i suoi compagni. Virgilio Fossati, capitano e allenatore, sapeva bene di poter contare su Bontadini in una gara ufficiale. Ma voleva vederci chiaro riguardo quelle assenze frequenti. Aveva il timore che fosse finito in un brutto giro di amicizie. Così chiese a un amico fidato di seguirlo per scoprire cosa facesse durante il giorno.
La relazione dell’amico fu sorprendente. Ebbene, Bontadini non frequentava le persone sbagliate. Semplicemente si recava quasi tutti i giorni a Pavia, all’Università di Medicina. A Milano non c’era ancora quella facoltà. Si era iscritto perché il suo sogno era diventare medico, sulla scia dei suoi fratelli che erano tutti laureati. Il padre aveva voluto che tutti i suoi figli avessero un titolo di studio.
Dalla guerra al suicidio
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale la sua idea fu quella di partire immediatamente per il fronte. Voleva dare una mano in trincea. Ma Franco temeva che la sua laurea in medicina avrebbe impedito questo suo desiderio. Lo avrebbero messo a curare i feriti e lui voleva partecipare attivamente, come tutti gli altri soldati. Non solo omise il suo status, ma diede addirittura false generalità. Quando fu scoperto, venne punito e degradato a sottotenente medico.
Tornato dal conflitto, si sentiva tremendamente in colpa. Mentre aveva avuto un ruolo marginale, molti dei suoi compagni erano caduti nel campo di battaglia. Tra questi anche il suo capitano Fossati, morto nel 1916 a Monfalcone. La depressione si impadronì di lui. E forse non lo lasciò mai. Riprese a giocare a calcio, vinse anche uno scudetto con la maglia dell’Inter nella stagione 1919-20. Ma qualcosa si era rotto. Al termine del campionato si ritirò dall’attività agonistica per intraprendere a tempo pieno il lavoro di medico, che svolse per una ventina di anni. Fino a quel maledetto 27 gennaio 1943, giorno in cui decise di spararsi un colpo di pistola e mettere fine alla propria vita. Soffriva per amore, ma forse erano anche tornati i fantasmi del passato. Un passato che Franco non aveva accettato.