Il magnifico ritorno del gioco all’italiana
Tre italiane in tre finali di Coppe Europee. Non accadeva dal 1994, quando Milan, Parma e Inter si qualificarono rispettivamente per l’atto conclusivo di Champions League, Coppa delle Coppe e Coppa UEFA. Da quella stagione magica sono passati ventinove anni. Un’eternità. Ma erano anche altri tempi. L’Italia era abituata a convogliare su di sé le attenzioni, probabilmente anche l’invidia, del resto d’Europa. E non solo perché da noi giocavano i calciatori più bravi. Le squadre italiane mettevano paura solo a nominarle. Non morivano mai, riuscivano sempre a cavarsela. Più la situazione era complicata, più veniva fuori lo spirito battagliero che ci ha sempre contraddistinto.
Il Milan che surclassò il Barcellona sembrava la vittima sacrificale. Senza Baresi e Costacurta, squalificati, Capello attinse all’esperienza di Filippo Galli e alla duttilità di Maldini, che fino a quel momento non aveva praticamente mai giocato al centro della difesa. I blaugrana rappresentavano uno spauracchio, soprattutto in attacco, dove potevano contare sulla classe di Romario e la potenza di Stoichkov. L’ago della bilancia era tutto a favore del Barcellona. Cruijff si era addirittura già fatto fotografare con la coppa dalle grandi orecchie sotto braccio. Come un vecchio amico che sai che non ti tradirà mai. E invece il Milan si prese Atene lasciando all’allenatore olandese un boccone amarissimo da digerire.
La stessa Inter che vinse la Coppa UEFA riuscì a raddrizzare una stagione storta battendo il Salisburgo per 1-0 sia all’andata che al ritorno. Vero, sulla carta gli austriaci erano inferiori, ma fino a quel momento i nerazzurri avevano vissuto una stagione tremenda. La peggiore della loro storia. Tra malumori e cambi di allenatori, si erano piazzati tredicesimi in campionato, a una sola lunghezza dal Piacenza retrocesso. In finale avrebbero dovuto sconfiggere i loro fantasmi, prima ancora che il loro avversario.
In questi ventinove anni è cambiato lo scenario. I campionati europei hanno via via ridotto il gap tecnico che avevano nei nostri confronti. Alcuni ci hanno affiancato, altri superato. Su questo non ci piove. Adesso in Serie A non ci giocano i migliori calciatori del mondo. Probabilmente è sempre uno dei campionati più difficili dal punto di vista tattico, ma abbiamo perso molta qualità tecnica. D’altronde se non siamo più un punto di approdo, ma al massimo di passaggio, lo si deve anche all’aspetto economico che ha cambiato le carte in tavola. Arrivare agli atti finali delle coppe è diventato sempre più difficile.
Attratto da una luce affascinante ma non certo propria, il movimento italiano ha provato a cambiare pelle, cercando di smarcarsi dalla nomea di calcio difensivo affibbiatogli nel ventesimo secolo. Quasi a volersi togliere di dosso un’etichetta disonorevole. Ma come hanno dimostrato le recenti prestazioni nelle coppe europee, è proprio quando giochiamo così che diamo il meglio. Quando siamo messi all’angolo, come un pugile in balia dei colpi tremendi del suo avversario, tiriamo fuori tutto l’orgoglio e la grinta che servono per rimanere in piedi sul ring. I recenti risultati e il modo nel quale sono stati ottenuti lo dimostrano. Tatticamente non siamo secondi a nessuno, ma se proviamo a giocarla con le stesse armi degli altri non abbiamo molte chances.
Naturalmente le tre finali raggiunte non devono farci pensare di aver risolto tutti i problemi. La stagione brillante che stiamo vivendo può rappresentare benissimo un’eccezione. Non sempre i sorteggi ci saranno favorevoli e non sempre le altre squadre più forti vivranno stagioni negative. Bisogna metterlo in conto, bisogna esserne consapevoli. Ma il calcio italiano ha riscoperto le sue origini. La bellezza del sacrificio, l’importanza del sudore, la grazia della sofferenza. Poco importa se gli altri diranno che siamo difensivisti, catenacciari, senza gioco. Se siamo tornati a giocarci delle finali europee lo dobbiamo anche al nostro modo, inimitabile, di stare in campo.