Un vecchio adagio, utilizzato anche dal mondo del calcio, recita: “i panni sporchi si lavano in famiglia”. I cosiddetti allenatori della “vecchia scuola” ne erano accanitamente convinti. Gli episodi negativi dovevano essere analizzati in privato, a quattr’occhi. Parlando in maniera diretta e franca, magari attraverso discussioni sanguigne e accese. Ma sarebbe stato un contraddittorio a cui nessun altro – a parte tecnico e giocatore – avrebbe potuto partecipare. Era quasi un regola. Che i tecnici più esperti utilizzavano per difendere paternalisticamente la propria squadra.
E in effetti capitava raramente che un calciatore venisse attaccato bruscamente in pubblico. La ramanzina avveniva dentro quelle quattro mura dello spogliatoio, il luogo più adatto per ovattare la tensione e dirimere le questioni pendenti. Fabio Capello, ad esempio, redarguì Antonio Conte – all’epoca allenatore dell’Inter – per aver criticato con durezza la società nerazzurra nel post partita di Borussia Dortmund-Inter. L’ex tecnico di Milan e Real Madrid, commentatore Sky, tirò fuori dal cilindro proprio la frase “i panni sporchi si lavano in famiglia”.
Con l’avvento dei social e la spettacolarizzazione sempre maggiore del calcio la situazione è probabilmente cambiata rispetto al passato. Lo notiamo sempre più spesso: adesso non è più così raro che un allenatore si scagli direttamente contro un suo calciatore, reo di aver avuto un comportamento irrispettoso nei riguardi della squadra o dei suoi. L’ultimo caso riguarda la querelle Juric-Radonjic, con l’allenatore del Torino che ha dato libero sfogo al suo pensiero sul trequartista serbo.
“Ci sono cose che faccio fatica a capire, manca il rispetto verso questo gioco, aveva delle cose da fare e doveva rispettarle, e non lo ha fatto, questo ragazzo ha spunti e tutto ma non ha fatto quello che gli ho chiesto, è sei mesi mesi che provo a farlo diventare un giocatore ma non ci sono riuscito”. Uno sfogo, forse una liberazione. E dal suo punto di vista Juric ha ragione ad essere inviperito, visto che Radonjic ha disatteso le sue consegne. La parte finale della dichiarazione suona come una pietra tombale, un segno di resa, una bandiera bianca. Radonjic vive in un mondo tutto suo e vuole giocare a modo suo, ma così facendo non c’è spazio per lui in una squadra come il Torino, in cui ognuno ha compiti precisi.
Più o meno la stessa sorte che ha riguardato Rick Karsdorp, ostracizzato da Mourinho dopo Sassuolo-Roma del 9 novembre scorso. Il tecnico portoghese parlò apertamente di “tradimento”, il giocatore venne messo fuori rosa con l’invito, nemmeno tanto velato, di cercarsi una nuova squadra. L’olandese passò momenti difficili, con i tifosi che si schierarono apertamente contro di lui. Una situazione delicata che però ultimamente è stata ricomposta ed è sfociata nel reintegro di Karsdorp nella rosa giallorossa.
Chissà, la reprimenda pubblica dei due allenatori è stata uno schiaffo salutare per Karsdorp e Radonjic. Solo il tempo potrà dire se il serbo, come l’olandese, riuscirà a riappacificarsi con Juric. Ma a prescindere dall’esito della vicenda alcune domande nascono spontanee. Siamo sicuri che, con questo comportamento, gli allenatori facciano il bene della propria squadra? Questo è veramente l’unico modo per scuotere un calciatore dal proprio torpore? E soprattutto: non è che talvolta, scegliendo un capro espiatorio con nome e cognome, si vuole in realtà svicolare dalle proprie responsabilità? Perché quando si rischia di fare i conti con la propria coscienza, la via più facile è quella del rifiuto. E della critica agli altri.