La recentissima querelle sul doping nel calcio italiano di ieri, riportata in auge oggi dai protagonisti di allora, apre inevitabilmente uno spaccato su un tema spinoso. Come provare a muoversi su un pavimento di piastrelle rotte, instabili, pericolose. Parlarne, nel 2023, scatena ancora polveroni. Ma si finisce sempre in un vicolo cieco.
Il primo vero scandalo doping nel calcio nostrano risale al 4 marzo 1964. Il Bologna, che avrebbe vinto qualche mese dopo quello che resta a oggi il suo ultimo Scudetto, fu al centro di un caso riguardante la positività di alcuni suoi giocatori. 5, per la precisione, i cui esami delle urine fecero scattare un polverone. I campioni risalivano alla partita Bologna-Torino, giocata il 2 febbraio. Furono coniati i più fantasiosi epiteti, per un fatto senza precedenti. Ma facciamo un passo indietro.
Già nel 1961 il calcio, principale passatempo del maschio italico, era minato dal sospetto su queste tematiche. In realtà si trattò di episodi risibili che non trovarono conferme. Alla vigilia della Rimet in Cile ’62, poi finita malissimo per l’Italia, i primi controlli sui calciatori fecero emergere numerose positività: ecco la nomea di <drogati> ad accompagnare il pallone nostrano, che avrebbe valicato i patrii confini. Il Guerin Sportivo, il 16 aprile, uscì con questa prima pagina: “Siamo tutti droghieri“. Una vignetta del celebre Marino Guarguaglini – con gli immancabili assist del conte Alberto Rognoni – inquadra la situazione con lo slogan “La Repubblica delle provette“.
Torniamo al 1964. Il giallo che coinvolse il Bologna vide inizialmente la sottrazione di 3 punti in classifica: tolti i due della vittoria contro il Torino più uno di penalizzazione. Parliamo di anfetamine. E dei rossoblù che gridano al complotto, per provette manomesse. Fanno ricorso e vincono, riconquistando i punti decisivi per lo Scudetto vinto infine allo spareggio con l’Inter. Un grande polverone irrisolto (come ricostruì il libro di Paolo Facchinetti “Dal football al calcio“, Conti Editore, 1989). Per tornare a parlare di doping nel calcio del Belpaese si deve attendere il 1990. I giocatori della Roma Angelo Peruzzi e Andrea Carnevale positivi alla fentermina (il celebre scandalo del Lipopill, farmaco dimagrante proibito): si tenta addirittura l’ingenua carta delle fettuccine al ragù di mamma Peruzzi, bugie a catena. La Procura Federale li squalifica per un anno.
I casi negli anni a venire saranno diversi, con sostanze diverse coinvolte – gli italiani scopriranno l’esistenza del nandrolone, uno steroide anabolizzante – e stop più o meno lunghi da parte della giustizia sportiva. Però, nel 1998, l’allenatore della Roma Zdenek Zeman aveva rilasciato un’intervista a L’Espresso, in cui parlò di farmaci e sostanze dopanti quali elementi estremamente diffusi nel calcio italiano. Il Procuratore della Repubblica Raffaele Guariniello decise di aprire un’ampia inchiesta per far luce sulla vicenda e di riflesso sui possibili collegamenti alle numerose morti di ex calciatori. Per l’alto numero di atleti – in particolare attivi negli anni ’70 – scomparsi prematuramente per malattia, il magistrato decide di compilare una lista di decessi ritenuti sospetti su cui andare a fondo.
Nella sua opera viene in qualche modo agevolato da un libro, la cui uscita nel 2000 suscita polemiche e dibattiti. Si tratta de “Nel fango del Dio pallone“, autobiografia dell’ex centravanti Carlo Petrini, protagonista della Serie A tra la fine degli anni ’60 e l’alba degli Ottanta. Petrini è malato. Non ha più nulla da perdere e così decide di svuotare il sacco. Racconta la sua vita dissoluta. Svela gli imbrogli del calcio. Partite truccate ma anche doping, in un’opera che apre una crepa. Argomento che riprende nel libro successivo “Scudetti dopati” (2005). I libri-denuncia dell’ex attaccante fecero clamore ma caddero nel dimenticatoio, specialmente dopo la morte sopraggiunta nel 2012. Così come gli sforzi di Guariniello, che non portarono a una verità tangibile e a dei colpevoli, come auspicato dai familiari dei giocatori scomparsi.
Ci fu un ulteriore episodio “scomodo”, legato alla pubblicazione di un’altra autobiografia. Quella di Ferruccio Mazzola, fratello minore di Sandro, figlio del grande Valentino ed ex giocatore di Serie A. Nel 2004 pubblicò, insieme a Fabrizio Calzia, “Il terzo incomodo – Le pesanti verità di Ferruccio Mazzola“. Accusò senza mezzi termini Helenio Herrera, allenatore della grande Inter in cui giocò brevemente con il fratello, di costringere i calciatori ad assumere pasticche di anfetamine sciolte nel caffè. Fu querelato per diffamazione dall’Inter: vinse Ferruccio. Sandro, che inizialmente aveva confermato, poi ritrattò accusando il fratello di volersi rivalere sulla società nerazzurra per i torti del passato. Farmaci dopanti e pratiche illecite, portati come possibili cause di morte prematura.
Ci sono stati anche dei filoni temporali, legati a specifici club e abbondanza di casi sospetti: la citata grande Inter degli anni ’60 allenata proprio da Herrera e la Fiorentina dei primi ’70, ad esempio.
Nel 2005, sulla scia del libro di Mazzola, la Procura di Firenze aprì un’inchiesta sulla morte di Bruno Beatrice, ex giocatore della Fiorentina morto prematuramente. Nel 2009 il caso fu archiviato. Insomma: non si è mai venuti a capo della matassa, dal punto di vista giuridico in primis. La scomparsa di Gianluca Vialli, lo scorso 6 gennaio, ha risvegliato le paure di alcuni colleghi contemporanei dell’ex capitano juventino, sconfitto da un tumore a 58 anni. Dino Baggio, Florin Raducioiu, Massimo Brambati, Antonio Di Gennaro, Marco Tardelli (in passato pure Giuseppe Bergomi) hanno parlato nei giorni scorsi del doping, di flebo e pasticche (il famigerato Micoren), manifestando timore per la propria salute, ricordando le sostanze assunte durante l’attività. A buttare acqua sul fuoco il ct azzurro Roberto Mancini e amico fraterno di Vialli.
Il tema del doping nel calcio italiano è, è stato e resterà un argomento intricato, delicato e che difficilmente troverà la verità. Tuttavia, non smette di suscitare interesse e smuovere le coscienze.