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Gianluca Vialli (1964-2023): la maglia azzurra, un amore che sarà eterno

Gianluca Vialli non ce l’ha fatta. L’ex bomber, tra i principali protagonisti del calcio italiano negli ultimi decenni, è stato sconfitto dal tumore al pancreas contro cui lottava da tempo. Una chiave di lettura del suo percorso è il colore azzurro, quello della Nazionale che lui ha amato fino a poche settimane fa.

Un racconto che non potrà scrivere, ma che con la fantasia e la passione proviamo a costruire, idealmente guidati dai ricordi e dalle emozioni che ha regalato agli appassionati. Grazie, bomber.


 

La maglia azzurra l’ho sentita appiccicata alla pelle da subito. Giocavo nella Cremonese, si parlava già parecchio di me e questo spaventava soprattutto la mia famiglia. In particolare mamma Mariolina. La disturbava il fatto che si accostasse il mio nome ai titoloni, ai miliardi. ‘Cremona è provincia. Si creano dei pettegolezzi e la nostra è una famiglia tranquilla‘. Mamma, era tutto vero. E quante volte spero di aver reso orgogliosi te e papà Gianfranco. La Nazionale juniores a quei tempi fu il primo assaggio. Poi arrivò l’Under 21. Azeglio Vicini fu bravo e fortunato, perché venne su un gruppo incredibile. Forse irripetibile. Mancio era sempre al mio fianco, condividevamo gioie e dolori con quella maglia addosso e quella della Sampdoria.

Ma faccio un passo indietro, perché le buone prove con la Sampdoria avevano spinto Enzo Bearzot a chiamarmi nella Nazionale maggiore. E così, in Polonia nel novembre ’85, arrivò il mio esordio. Un’emozione clamorosa. E poi? Chi l’avrebbe detto che mi avrebbe scelto come riserva di Bruno Conti per il Mondiale in Messico? Che responsabilità… Feci il possibile, entrando sempre per qualche spezzone, con la testa rasata e i calzettoni abbassati. Che faccia tosta! Devo riconoscerlo. In quel 1986 con la Under perdemmo la finale dell’Europeo di categoria, ci bruciò tantissimo. Tuttavia, ci sentivamo forti. Per fortuna Mister Vicini fu nominato ct della Nazionale maggiore e ci portò in tanti con lui, facemmo il grande salto. Un nuovo ciclo per l’Italia, avevamo fame e voglia di spaccare il mondo: ci riuscimmo solo in parte.

Nelle eliminatorie per Euro ’88 mi feci conoscere a livello internazionale, contribuendo alla qualificazione e seguendo i consigli preziosi di un totem come Spillo Altobelli. Nella fase finale in Germania Ovest strabiliammo il Continente, con un calcio fresco, dinamico, di qualità. Una mina vagante tra squadre ricche di campioni. Ricordo con grande trasporto il gol che feci alla Spagna: quante botte presi quel giorno, ma alla fine fregai io – grazie al velo di Spillo – prima Tomás e poi Zubizarreta. Gol! Il mio numero 20 che svolazzava, ancora i calzettoni abbassati. Non avevo paura di niente e nessuno. Purtroppo lui fece sempre fatica con l’Italia e non ha avuto ciò che avrebbe meritato. La sua corsa rabbiosa contro i giornalisti, dopo il gol ai tedeschi, fu anche la mia. Ci fermammo in semifinale.

C’era Italia ’90 da giocare. Da vincere. E la tensione, l’attenzione mediatica cresceva. Io venivo considerato tra le stelle più attese, non potevo certo nascondermi. Tuttavia, successe l’impensabile: mi feci male. Non riuscii a giocare le mie carte come avrei voluto, il rigore contro gli Stati Uniti finì pure sul palo. Insomma, nel frastuono festoso dell’Olimpico mi sentivo un estraneo. Al gol ci pensò Schillaci, sono stato felice per Totò. Ma quello sarebbe dovuto essere il mio Mondiale.

Il mio Mondiale.

Un rimpianto che mi ha sempre accompagnato, come quei treni che passano una volta sola e devi farti trovare pronto per saltarci su. Eppure entrai in due segnature di Totò, nelle azioni contro Austria e Argentina. Dal sogno iridato infranto in poi ho come sentito la maglia azzurra lasciare la mia pelle pezzettino dopo pezzettino, come se ci fosse una congiura in atto. Se ne sono dette e scritte tante. Ma io sono sempre andato avanti, con le mie rivincite sul campo, pregi e difetti. Prendere o lasciare.

Quando arrivò Sacchi sulla panchina azzurra ci misi pure del mio, e parecchio, per rovinare tutto. Mi negai pure per qualche convocazione, una stupidaggine di cui mi pento. Troppo amore, forse, mi fece peccare. Di presunzione, nel nome di ciò che mi sentivo di essere dopo aver vinto lo Scudetto a Genova da capocannoniere, i gol in Coppa dei Campioni. Cambiai look, mi rasai a zero prima di andare alla Juventus e vestii l’ultima maglia azzurra a Malta. Segnai. Dopo aver appena perso da poco la finale a Wembley con la Samp, un altro dolore fortissimo. Chiusi con 59 presenze e 16 reti la mia avventura da giocatore con l’Italia. Orgoglioso di ciò che ho fatto. Ma resta dentro me un senso di incompiuto, di amarezza. Immaginate il mio tumulto interiore.

Roberto Mancini, il mio fraterno amico e compagno di mille partite e altrettanti gol, mi volle vicino quando diventò commissario tecnico. Il male mi aveva già assalito, tuttavia sembrava che il primo round lo avessi vinto. Ho fatto diversi pit-stop per via del mio inquilino indesiderato, cercando di essere sempre un punto di riferimento. Senza mai nascondermi, anche se so di aver fatto preoccupare tante persone. Anche fisicamente sembrava come se il mio nuovo me avesse preso a pugni il Gianluca culturista dei tempi juventini. Un fascio di muscoli, massiccio. Ricordi lontani, purtroppo. Ora Vialli si era fatto crescere la barba per annacquare i tratti magri del viso. Avevo candidamente ammesso di farmela addosso dalla paura. Però non potevo mollare. Per me, mia moglie, mie figlie, la famiglia e le persone che mi volevano bene.

Mi sono spinto oltre. Ancora una volta. E quella notte di Wembley, così come l’abbraccio con Mancio che inseguivamo fin dal 1992, sono stati come un dono. L’Europa era finalmente nostra. Finalmente insieme.

Non piangere amico mio.

E non dimenticarti mai che noi saremo per sempre “I Gemelli”.

Onorate, tu e i nostri splendidi ragazzi, quella meravigliosa maglia dal colore del cielo.

Uno di voi”.