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Un problema reale, una soluzione debole: cosa imparare dai maxi recuperi di Qatar 2022

In un Mondiale già destinato a rimanere inciso nella storia per ragioni per ora principalmente negative come quello di Qatar 2022, si è ufficialmente aggiunto un aspetto finora inedito che sta rendendo le prime gare del torneo uniche rispetto al passato: la nuova modalità di conteggio dei minuti di recupero da assegnare nel primo e secondo tempo. Non è sfuggita a nessuno la curiosa e lunghissima durata delle partite d’esordio, con gli arbitri che si sono ritrovati a segnalare una quantità di minuti oltre il tempo regolamentare senza precedenti.

Il record, per ora, lo ha stabilito Inghilterra-Iran: ben 27 minuti di recupero tra primo e secondo tempo, praticamente dei tempi supplementari. La ragione, in questo caso, sembrava essere legata al grave infortunio del portiere iraniano Beiranvand, ma in realtà tutte le altre gare giocate finora non hanno mai fatto contare meno di nove minuti di recupero complessivi: i due 0-0 di Messico-Polonia e Danimarca-Tunisia. Insomma, nelle linee guida sull’assegnazione dei recuperi è cambiato qualcosa. E, per i più attenti, non si tratta nemmeno di una novità calata dal cielo.

Era stato proprio il presidente della Commissione Arbitri della FIFA Pierluigi Collina, alla vigilia dei Mondiali, ad aver annunciato l’intenzione di lanciare un cambiamento epocale: agli arbitri veniva richiesta una maggiore attenzione nel recuperare tutto il tempo perso, perché ritenuto “scandaloso” che il gioco effettivo si possa limitare a “42-43-44-45 minuti”. L’ex direttore di gara non ha portato il classico esempio delle perdite di tempo, dell’intervento del VAR o degli infortuni, bensì quanto tempo si perde durante i festeggiamenti per una rete: un minuto, un minuto e mezzo che, moltiplicato per 2 o 3 gol di media, contribuisce da solo nel formare un recupero di una certa consistenza.

Insomma, il discorso di fondo è chiaro ed è tra l’altro oggetto di un acceso dibattito da anni: chi va allo stadio si aspetta di vedere 90′ di calcio giocato e, allo stato attuale, durante le partite si perde troppo tempo. E in un Mondiale in cui la necessità di fornire uno spettacolo di livello e scintillante ha avuto la priorità su tutto il resto (diritti umani, disputare il torneo in inverno spezzando in due la stagione, per di più in un Paese problematico sul piano interno come il Qatar), non si poteva che proporre adesso un esperimento di tale portata. Difficile immaginare che si tratterà di un caso isolato e limitato a questo mese e mezzo di torneo; è più probabile, piuttosto, che possa diventare il precedente da riprodurre anche a livello di competizioni di club. Magari non quest’anno, ma di sicuro se ne discuterà per la prossima stagione.

Mai come adesso sembra così vera quella frase che sentiamo sempre ripetere dagli allenatori in conferenza stampa in cui si chiede alla squadra di essere in partita 95 minuti, a chiarire che le partite finiscono quando l’arbitro fischia tre volte e che fermarsi al novantesimo porta spesso a crude beffe. Le partite di questi Mondiali sono diventate lunghissime e non riesco a non pensare a due aspetti che incidono eccome su una gara. Il primo è quello psicologico-mentale: un calciatore, scoccato il novantesimo, non sa più bene quanto dovrà giocare ancora, perché si è passati, nell’arco di una settimana, dai canonici 5-6 minuti complessivi a recuperi anche in doppia cifra. Un cambiamento di questo tipo, sul piano della testa, non è di poco conto.

Il secondo è quello fisico, certamente più importante. Gli staff medici delle Nazionali stanno mostrando una certa preoccupazione sugli effetti di questi maxi recuperi sugli infortuni, anche perché è stato impossibile fare una preparazione ad hoc: giocare così tanti minuti in più, magari nel finale di partita, significa aumentare anche il rischio di infortuni da affaticamento, stress muscolari, ma anche la possibilità che, a causa della minore lucidità, ci possano essere interventi fallosi che possono comportare conseguenze anche gravi sulla salute dei giocatori.

Il discorso di fondo di Collina può essere comunque condivisibile, anche senza affidarsi ai discorsi di vuota retorica sulla necessità di un calcio sempre più spettacolare e sui presunti giovani d’oggi che si annoiano facilmente e quindi vanno intrattenuti a tutti i costi (compresa la creazione di una Superlega elitaria, ma questo è tutto un altro tema). Secondo le ultime statistiche raccolte nel rapporto CIES, in Serie A il gioco effettivo è pari al 63,2% del totale della partita: obiettivamente, è troppo poco. Ma la domanda da porsi arrivati a questo punto è: siamo davvero sicuri che dare più minuti di recupero sia la soluzione per recuperare il tempo perso?

Qui, invece, di perplessità ce ne sono molte. A partire dalla direttiva stessa fornita agli arbitri: recuperare tutto. Ma l’assegnazione dei minuti di recupero resta pur sempre a discrezione dell’arbitro, la cui decisione è insindacabile, anche quando il pubblico ti travolge di fischi perché contrario alla scelta fatta. Esistono già oggi delle indicazioni generiche su come recuperare, per esempio, una sostituzione (di solito, si conteggiano 30 secondi per cambio) e gli infortuni (un minuto, di base, se entra in campo lo staff medico), ma quasi mai, al momento dell’assegnazione, si segue un criterio scientifico, che conteggi ogni singola situazione.

Il discorso, in altri termini, è che ogni arbitro, pur nel rispetto di una direttiva generale, ha una propria sensibilità e discrezionalità, che aumenta ancora di più se si passa da una scelta tra i 3 e i 6 minuti di recupero a una che può far arrivare a recuperare un tempo supplementare.

Gli stessi minuti di recupero non sono mai pienamente sostitutivi di quanto si è perso di gioco effettivo: stanchezza, poca lucidità, perdite di tempo “naturali” o dovute alla volontarietà dei singoli giocatori hanno un ruolo di peso e spesso trasformano gli stessi minuti di recupero in altri minuti andati a vuoto.

Se davvero si vuole andare a fondo nelle intenzioni di vedere meno tempo perso e più calcio giocato, la soluzione non può che essere l’introduzione del tempo effettivo, come già si fa nel calcio a 5 o nel basket. Chiaro, saremmo comunque di fronte a un cambiamento radicale: dovremmo dire addio ai romantici novanta minuti per ridurre la durata effettiva della partita e abituarci a vedere il cronometro fermarsi spesso. Resta una soluzione più oggettiva, più facile da applicarsi in maniera uniforme in tutte le partite e probabilmente al passo con le esigenze attuali. Insomma, evitiamo i cambiamenti a metà come si fece con gli arbitri di porta prima dell’introduzione della tecnologia nel calcio. Facciamo in modo che da questi, disastrosi Mondiali si possa portare a casa almeno un’importante lezione per il calcio del futuro.