Le piazze in Iran sono sempre più calde e le proteste verso il governo iraniano proseguono giorno dopo giorno, ormai da quasi due settimane. La morte della giovane Masha Amini, arrestata per aver indossato l’hijab in maniera non adeguata secondo le rigide linee guida religiose del Paese e torturata per giorni in carcere, ha scatenato moti di ribellione antigovernativi con pochi precedenti negli ultimi anni, facendo salire la pressione verso le autorità iraniane. Tra la folla, si urlano slogan come «Morte al dittatore!», rivolti alla Guida Suprema del Paese Ali Khamenei. La figura più importante dal punto di vista politico e religioso, ora sempre più delegittimata. Intanto, però, i morti sono già a decine, centinaia i feriti e ancora di più le persone arrestate, con le forze dell’ordine che hanno reagito da subito usando il pugno duro per provare a soffocare la rivolta. Una situazione pericolosa, al punto da aver allarmato anche l’ONU, ancor di più davanti alle evidenti difficoltà nel riuscire ad avere notizie, viste le restrizioni sulle telecomunicazioni.
La protesta, però, ha ormai superato i confini nazionali e anche il mondo dello sport si sta unendo nelle critiche verso la Repubblica Islamica. Sulle pagine Instagram di tanti giocatori l’immagine del profilo è stata coperta in segno di lutto e opposizione, mentre leggende dello sport nazionale come il centrocampista dell’Esteghlal, Zobeir Niknafs, si sono unite alla protesta rasandosi simbolicamente i capelli: il gesto di protesta che tante donne stanno compiendo, in linea con l’usanza curda (l’etnia di appartenenza di Masha Amini), contro le restrittive regole del codice di abbigliamento imposto sin dalla fine degli anni ’70 e in sostegno del dolore della morte della ragazza 22enne. Anche la Nazionale iraniana ha mandato un messaggio forte e chiaro in occasione della partita contro il Senegal: durante l’inno, i giocatori hanno coperto le maglie indossando una giacca nera, in segno di lutto e protesta. Tra di loro, spicca la voce di uno dei giocatori più importanti della storia del Paese, Sardar Azmoun, oggi al Bayer Leverkusen.
L’attaccante classe ’95 è stato tra i primi a esporsi pubblicamente, anche a costo di subire conseguenze importanti nella propria vita sportiva e non solo: “A causa del regolamento della Nazionale, non ci è permesso di dire nulla fino alla conclusione del nostro attuale ritiro, ma non sono più in grado di tollerare il silenzio. Vergognatevi. La punizione definitiva per me è essere espulso dalla Nazionale, che è un piccolo prezzo da pagare per una sola ciocca di capelli di una donna iraniana. Non sarà mai cancellato dalla nostra coscienza. Non ho paura di essere estromesso. Vergognatevi per aver ucciso le persone così facilmente e lunga vita alle donne iraniane”. Anche dopo la gara contro il Senegal, Azmoun si è fatto sentire: “La mia maglia appartiene al popolo iraniano, non a una singola persona”, ha urlato, uscendo dal campo.
Il sostegno alle proteste, però, comincia eccome ad avere effetti sulle carriere di altri sportivi che hanno preso posizione pubblicamente. E’ quanto accaduto all’arbitro Alireza Faghani, rimosso in queste ore dalla lista degli arbitri internazionali dell’Iran per aver criticato le violenze commesse dalla polizia e aver dato il proprio sostegno ad Azmoun e all’ex calciatore Ali Karimi: tradotto, il Mondiale in Qatar sarà il suo ultimo torneo da direttore di gara. Un gesto coraggioso che l’arbitro 44enne, uno dei più importanti in Asia, pagherà a caro prezzo in un regime che da anni impone forti limitazioni alla libertà d’espressione. Ancora di più in una fase delicata per il governo che, davanti all’intensificarsi della protesta, ha immediatamente reagito con la violenza, come fatto anche nel 2009 quando l’obiettivo delle manifestazioni era diventato il presidente fresco di rielezione Mahmoud Ahmadinejad, o negli ultimi anni (per esempio, nel 2019, davanti all’insostenibile aumento del prezzo del carburante). Una scelta che, fino ad adesso, ha sempre pagato sul piano politico, soprattutto grazie al controllo totale del regime sull’apparato di sicurezza e delle forze di polizia, ma che potrebbe aprire nuove crepe a lungo termine, considerati i costi umani e sociali e in vista di nuove e pericolose fasi di instabilità politica.