Un personaggio di primo livello del calcio africano, che dovette riparare in Italia quando il suo nome era diventato scomodo: storia di Luciano Vassallo, il campione che portò l’Eritrea sul tetto d’Africa.
Non è stata benevola la vita con Luciano Vassallo. Ma, nonostante tutto, è riuscito a sconfiggere le avversità con dignità e senza mai dimenticarsi una parola importante: inclusione. Nato ad Asmara (Eritrea) il giorno di Ferragosto del 1935, figlio di un militare italiano e di una donna indigena, vide la luce proprio nell’anno dell’invasione delle truppe fasciste in quei territori. Il padre, ufficiale dell’esercito coloniale del Duce, fece perdere le proprie tracce in breve. La madre Mebrak si trovò a crescere Luciano e il fratello più piccolo Italo tra mille difficoltà.
Visse la giovinezza con disagio e sofferenza, in quanto penalizzato dal colore della pelle. I meticci venivano visti con disprezzo ed emarginati, anche a scuola: le leggi razziali li mettevano sul livello di una <razza inferiore>. L’istruzione portata avanti fino alla seconda elementare: vessato da insulti e soprusi, Luciano deve lasciare gli studi. Iniziò a fare i lavori più disparati. Tramite un uomo italiano riuscì ad entrare come meccanico nelle Ferrovie e apprese l’arte. Parallelamente, ecco sbocciare la passione per il pallone. Con la sfera tra i piedi, i fratelli Vassallo ci sapevano fare. Quello, per fortuna, fu il lasciapassare per la svolta. Luciano entrò nel Gruppo Sportivo Stella Asmarina.
Non esiste colore della pelle, etnia, condizione sociale che tenga quando un individuo manifesta la propria bravura. E allora, nonostante gli sguardi storti di tanta gente, Luciano Vassallo comincia ad affermarsi nel calcio. In breve diventa la stella del suo club e della Nazionale, di cui diventa capitano e giocatore più rappresentativo. Vince la Coppa d’Africa 1962 con l’Eritrea – prima e unica volta nella storia – ritirando il trofeo dalle mani del dittatore Hailé Selassié. E pensare che alcuni dirigenti avevano cercato di cambiargli il nome – troppo italiano per i loro gusti – e togliergli la fascia prima del torneo, trovando disdicevole l’eventualità di una vittoria con un capitano meticcio. Non riuscirono nel loro intento.
Veste anche la maglia del Gruppo Sportivo Gaggiret e del Cotton Sport. Terzino sinistro, poi centrale difensivo e infine centrocampista dal tiro letale. Poi accade l’impensabile. Il nome e la figura di Luciano Vassallo, diventati molto popolari, infastidiscono il regime. E il campione non è tipo remissivo, non si tira indietro quando c’è da aprire la bocca e questo gli attira parecchie grane. D’altronde, parliamo di un tipetto tosto che non esitò a picchiare un compagno di Nazionale, che gli aveva dato del bastardo. Da allora aveva acquisito rispetto incondizionato. La dittatura però vuole isolarlo e dapprima gli fa perdere il posto di lavoro in un cotonificio a Dire Dawa, con cui contribuiva al mantenimento della madre. Il denaro guadagnato con tanti sacrifici lo investe in una casa con officina Volkswagen annessa ad Addis Abeba, per far fruttare le nozioni di meccanica acquisite in gioventù.
Il regime lo avrebbe voluto eliminare fisicamente, ma la buona sorte lo aiuta. Viene riconosciuto da un poliziotto suo tifoso e aiutato a espatriare. Siamo nel 1968 e il nostro approda in Italia. Vuole dare ancora tanto al calcio e così frequenta con successo il Supercorso di Coverciano, diventando allenatore. Guida la sua Nazionale in tre distinte parentesi negli anni ’70 e pure qualche club. Finché raccoglie le testimonianze di alcuni suoi ex giocatori e dichiara alla stampa del suo Paese che il C.T. della rappresentativa, il tedesco Schnittger, ha fatto assumere alla squadra una sostanza illecita – il Captagon – scatenando un polverone. Si inimica la Federcalcio e diventa un personaggio non gradito. Tanto che viene arrestato (con l’accusa di connivenza con il vecchio regime, ormai caduto) e gli confiscano tutto. In quei drammatici momenti, Luciano salva la pelle ma deve lasciare il Paese. Nel 1978 ritorna in Italia definitivamente. Senza nulla, solo con la borsa degli attrezzi da meccanico. Inizialmente lavora per strada, poi riesce ad aprire una sua officina.
Fonda la scuola calcio Olimpia Ostia. Insegna il gioco del pallone ai ragazzi, ma non solo: si integra talmente bene nel tessuto locale da rappresentare un punto di riferimento per la comunità etiope-eritrea, che spesso si incontra nel noto bar Benito in via delle Aleutine a Ostia. E quando nel 1998 apprende che l’Etiopia si rifiuta di giocare contro l’Eritrea, per le qualificazioni della Coppa d’Africa, si impegna a organizzare Etiopia-Eritrea nella sua città adottiva: inclusione. “Perché la pace e lo sport non conoscono frontiere“, dichiarò all’epoca.
Nel 2000 pubblica l’autobiografia “Mamma, ecco i soldi“, in cui porta alla luce il rapporto con una madre che in realtà non lo voleva e lo considerava <figlio del Diavolo>. Non gli viene più concesso di rientrare in possesso dei beni confiscati in Eritrea e, dopo tanti anni come meccanico, va in pensione. Luciano Vassallo è scomparso venerdì 16 settembre, all’età di 87 anni. Un campione scomodo, che ha lasciato questo mondo con la convinzione di essere stato un perenne ripudiato di quella terra d’Africa, rappresentata con onore da atleta.
(Fonti: Il Corriere della Sera, 7 ottobre 1998 / “Luciano Vassallo – Il magnifico superstite” di Antonio Felici, Paese Sera, 22 gennaio 2013)