L’abbiamo detto e ridetto: il calcio, a noi appassionati, scandisce il tempo della vita. Dire “sedici anni fa”, per chi vive di pallone e tifa la Nazionale, vuol dire inquadrare esattamente il lasso di tempo tra la coppa del mondo 2006 e i mondiali che si disputeranno quest’anno, in Qatar. Oggi è 9 luglio: sedici anni fa, stasera, Materazzi avrebbe pareggiato il calcio di rigore di Zidane, che poi sarebbe stato espulso per la celeberrima testata, e Grosso, con quel mancino dagli undici metri, avrebbe fatto esplodere tutt’Italia, e tutti gli italiani in ogni angolo del mondo.
Che effetto fa ricordare? È sempre emozionante, sicuramente. Definire però “amaro in bocca” ciò che si prova ricordando che quest’anno, a novembre, in Qatar, l’Italia salterà il mondiale, è eufemistico. Sottolineare il fatto che sarà la seconda volta consecutiva che succede una simil tragedia, è infierire. È mettere del sale sulle ferite, girare il classico coltello nella piaga.
In un pezzo pubblicato sulla Gazzetta dello Sport lo scorso 29 marzo, quando ancora era violento il dolore della sconfitta decisiva con la Macedonia del Nord, Francesco Calvi scriveva che “Perché l’Italia torni grande, serve che lo diventino prima i suoi giocatori”. Quell’articolo si proponeva di iniettare dell’ottimismo nelle vene dei tifosi, spiegando che, paragonando le due rose italiane che non hanno raggiunto i mondiali, quella del 2017 era meno talentosa, e composta perlopiù da giocatori a fine ciclo, rispetto alla Nazionale del 2021. Vero, verissimo: oggi, almeno, di qualità se ne vede, soprattutto nei giovanissimi. Vi ricordate però (per chi c’era) cosa si diceva alle soglie del mondiale 2006? Ricordate i timori per l’esclusione di Cassano, le polemiche post calciopoli, la convocazione di Buffon nonostante le indagini per le presunte scommesse, l’esclusione di Lucarelli, l’infortunio di Totti che poi in Germania ci andò, ma con una staffa nella gamba? Quell’Italia – che stasera, sedici anni fa, sarebbe diventata campione del mondo – si era plasmata in un periodo di assoluta difficoltà. E aveva talento, eccome se ce l’aveva, ma meno rispetto a quella del 2002, che a mio avviso erea una delle più forti dell’epoca contemporanea, eliminata a causa di quel gol del “perugino” Ahn nei supplementari (che poi Gaucci non volle più in squadra) e dall’arbitraggio da galera di Byron Moreno.
Tutto ciò, per sottolineare una verità che difendo a spada tratta: di problemi, il calcio, ne è pieno. Le strade di chi lo vive alternano salite ripide a discese comode. Si è vinto quando tutto andava male, si è perso quando tutto sembrava facile (abbiamo vinto l’Europeo, keep in mind). L’Italia del 2017 (con Tavecchio a capo della Federazione, ricorderete) e questa del 2021, nonostante differenze qualitative ovvie, non possono trovare appigli a cui aggrapparsi: sono semplicemente dei progetti che hanno fallito. Sia quella, sia quest’Italia avevano assolutamente qualità sufficienti per accedere ai mondiali, e guardare al futuro, per quanto stimolante, non riesce a strappar sorrisi.
Soprattutto oggi.
Oggi, che è noveluglioduemilaventidue, ed è passato il tempo di tre mondiali e quattro europei da quella notte in cui, fatte le valigie e andati a Berlino, colorammo quel cielo di azzurro.
Siamo costretti a vivere di ricordi.
Oggi, soprattutto oggi, fa un male che non si spiega.