Primo Piano

Devo la vita a Pablito

Mio padre conquistò mia madre a suon di pianoforte. Animo discreto e poco incline a manifestazioni d’amore esplicite, s’esprimeva attraverso il linguaggio dei grandi maestri della musica classica che tanto gli è sempre piaciuta. Beethoven, Strauss, Mozart, Satie e quella “Moonlight Sonata” che fece sciogliere il cuore di mia madre. La sublimazione del loro amore si concretizzò attraverso il loro matrimonio, nel Settembre del 1978, in pieno stile familiare all’italiana. Io, però, ci ho messo un po’ a nascere. Proprio non ne volevo sapere. I miei genitori avevano quasi perso le speranze e, dopo ben 4 anni di vita coniugale, si preparavano a soluzioni alternative. E invece il destino aveva in serbo altri piani.

Così, nel mese di Agosto del 1982, mia mamma ebbe la certezza: era incinta. Finalmente. Calcolando i tempi, la data del concepimento non aveva fraintendimenti (e capirete, senza dettagli, il perché): 5 Luglio 1982. Quel giorno non era uno qualunque, non soltanto un afoso momento di un’estate torrida italiana, non solo l’anticamera delle ferie imminenti dei lavoratori e degli studenti appena usciti da esami e interrogazioni. Quel giorno era il giorno di Italia – Brasile. Erano in corso i mondiali di Spagna e, dopo una prima fase balbettante la Nazionale di Enzo Bearzot, bersagliata da stampa e critica, aveva stupito tutti battendo l’Argentina di Maradona e Passarella nella prima partita del gironcino a 3 della seconda fase. Quello che avrebbe stabilito le semifinali. Un due a uno convincente, suggellato dai gol di Marco Tardelli e Antonio Cabrini e non scalfito dal punto del Caudillo, in procinto di passare alla Fiorentina dal River Plate.

Per guadagnare la semifinale, l’Italia ha bisogno di superare il Brasile, che gode di una miglior differenza reti e a cui basta il pareggio. Il ct Bearzot, un friulano dolce con i suoi ragazzi, ma duro all’esterno, se ne frega che tutti gli imputino di non aver portato Roberto Pruzzo al Mundial, se ne infischia che fin lì Paolo Rossi fosse ancora a secco di gol e prestazioni convincenti. Lo aveva voluto con sé a tutti i costi, appena riemerso dalla squalifica di due anni per lo scandalo del Totonero. Consapevole delle sue qualità, già emerse al mondiale precedente in Argentina. Il Brasile, però, era in quel momento la rappresentazione calcistica di Golia. Telè Santana, il ct carioca, filosofeggiava un guardiolismo antico e la sua squadra era piena zeppa di stelle per tradurlo sul campo: Falcao, Cerezo, Socrates, Eder, Junior. E Arthur Antunes Coimbra, stella del Flamengo meglio conosciuta come Zico. O Galinho (il galletto) avrebbe fatto vedere meraviglie anche in Italia, all’Udinese, in quel calcio in cui anche una medio-piccola poteva sognare i campioni.

E quella Serie A, con Maradona, Platini, Rummenigge, Van Basten, Falcao e Gullit, solo per dirne alcuni, era il paese dei balocchi. Quel giorno, quel 5 Luglio, la missione dell’Italia era quasi impossible. Ma quel giorno Paolo Rossi diventò Pablito allo stadio Sarrià di Barcellona, casa di allora dell’Espanyol, abbattuto poi nel 1997. La sentiva la pressione, eccome se la sentiva. Voleva ripagare il suo ct, i suoi compagni, quei tifosi che credevano in lui (pochi) e zittire le critiche. Dopo 5 minuti Cabrini gli disegna sulla testa una parabola dolce che lui spinge in rete in diagonale. Lì si sblocca mentalmente, scioglie la tensione sulle spalle e aumenta i giri del suo motore energetico.

Dopo sette minuti, però, Socrates pareggia. Al 25’ Cerezo, superficiale, azzarda un passaggio orizzontale da manuale dell’anti-calcio, Rossi ci si avventa come un falco e, ormai convinto di essere invincibile, scarica con il destro il pallone nuovamente in rete. Siamo ancora davanti. Nel secondo tempo il Brasile spinge e la paura sale. Falcao, da leader vero qual è sempre stato, prende per mano la sua squadra e con un sinistro micidiale dal limite dell’area pareggia nuovamente, 2-2. Mancano solo venti minuti alla fine. Minuto 74: Cerezo con un passaggio di testa all’indietro ci agevola un calcio d’angolo. È il primo in favore degli azzurri di tutta la partita. Lo va a battere Bruno Conti: la palla spiove in area e, dopo un rimpallo di testa tra Oscar e Socrates, finisce a Tardelli.

Il centrocampista della Juve calcia al volo di sinistro, il tiro è centrale e probabilmente non sarà un problema per Valdir Peres, il portiere. Sulla traiettoria, però, irrompe ancora una volta lui, Paolo Rossi che d’istinto calcia di prima intenzione con il destro e scaraventa di nuovo la palla in rete, per la terza volta. Tripletta. Italia ancora davanti! Quando gli dei del calcio si allineano sul cielo di Barcellona, dietro le nuvole compare l’azzurro e il Brasile, nonostante un ultimo colpo di testa di Paulo Isidoro bloccato sulla linea da Dino Zoff, deve soltanto arrendersi.

Quel giorno il calcio è l’Italia. E lo sarà ancora, perché quella squadra solleverà la coppa del mondo al cielo di Madrid l’11 Luglio, facendo impazzire un Paese intero. Paolo Rossi diventa Pablito quel 5 Luglio: el hombre del partido contro un Brasile fortissimo. Anche lui, timido ed educato, era passato attraverso la tempesta senza sussulti, sapendo rispondere alla vita come mio padre (tifoso juventino, ça va sans dire) fece con la musica per mia madre, cioè nel linguaggio che più conosceva: il gol. Quel giorno ne fece tre. Ed io, nove mesi dopo, nacqui. Gli sarò eternamente grato