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Come l’Arabia Saudita ha messo le mani sul Newcastle, l’affare che nessuno dovrebbe volere

C’è stato un momento in cui quasi nessuno sembrava volere che il passaggio del Newcastle United alla cordata del Fondo Monetario dell’Arabia Saudita (Il Public Investment Fund) si realizzasse davvero. I tifosi dei Magpies erano rimasti soli nel supportare un potenziale, storico passaggio di consegne del proprio club nelle mani di una proprietà dal capitale immenso, ben superiore a quello di qualsiasi altra società europea, mettendo fine alla disastrosa gestione di Mike Ashley, che poco ha fatto se non relegare i bianconeri a un ruolo da squadra di secondo, se non addirittura terzo piano.

Era un affare che non volevano le altre società inglesi, timorose di veder comparire sulla scena un altro gigante calcistico ed economico, 13 anni dopo il già traumatico avvento dello sceicco Mansour al Manchester City. Non lo voleva la gran parte della società civile, più o meno consapevole di chi ci fosse davvero dietro a quel fondo: il governo dell’Arabia Saudita, rappresentato da un personaggio quantomeno controverso come Mohammed bin Salman, principe ereditario al trono del Paese ma leader de facto della politica interna ed estera saudita. Un giovane capo di governo riuscito a farsi spazio, con il suo carisma, in un ambiente storicamente dominato da anziani; consapevole di dover diversificare l’economia saudita per abbandonare la dipendenza dal petrolio e puntare su altri settori strategici (come testimoniato anche dalla strategia Quinquennale del Public Investment Fund lanciata lo scorso gennaio); protagonista anche di alcune importanti svolte sul piano sociale, come il noto riconoscimento alle donne del diritto di guidare. Eppure, dietro quel lato apparentemente luminoso, si nasconde un aspetto più scuro, di un uomo che ancora permette l’arresto di attivisti nel Paese; che partecipa attivamente (nonostante i recenti tentativi di mediare una pace, rimasta finora solo sulla carta) nello Yemen stremato da una drammatica e dimenticata guerra civile; che silenzia i dissidenti, anche soffocandoli nel sangue. Secondo un rapporto ONU, è proprio Mohammed bin Salman il mandante dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, ucciso e fatto a pezzi nell’ambasciata saudita in Turchia nel 2018.

Ma, soprattutto, a non voler veder realizzata questa trattativa erano la Premier League e il Qatar, storico rivale sul piano geopolitico dell’Arabia Saudita e Paese di lancio di beIN Sports, la piattaforma di proprietà del presidente del PSG Nasser Al-Khelaifi e detentrice dei diritti televisivi della massima serie inglese in Medio Oriente. Una televisione che, quattro anni e mezzo fa, l’Arabia Saudita aveva persino vietato internamente. Insomma, non illudiamoci: quando lo scorso anno la Premier League si oppose all’acquisto del Newcastle da parte del PIF, i diritti umani non furono mai menzionati. La vera questione che interessava erano, appunto, i diritti televisivi e il presunto collegamento tra il governo saudita e il servizio pirata online BeoutQ, una piattaforma che da tempo permette un accesso illegale a diversi eventi sportivi, comprese le partite di Premier League, Wimbledon, Sei Nazioni. Non solo, però: la cordata saudita non aveva superato il test che la Premier League prevede in maniera obbligatoria per chi si appresta a diventare nuovo proprietario di un club affinché vengano rispettati importanti requisiti di credibilità. E il motivo era noto a tutti: il PIF non era riuscito a dimostrare di essere separato dal controllo del governo dell’Arabia Saudita.

Da quel mancato acquisto è passato quasi un anno e mezzo. Il governo saudita, ovviamente, non è rimasto fermo: ha provato a far pressioni addirittura sul governo inglese, ha reso sempre più solida la propria amicizia con Infantino e la FIFA, ha anche ventilato l’ipotesi di puntare su altri club da acquistare, Inter compresa. Poi, in queste ore, una svolta importante, anche se non del tutto inaspettata nel clima di graduale distensione registrato negli ultimi tempi nei rapporti diplomatici tra Arabia Saudita e Qatar. Il governo saudita cancella il divieto di trasmissione imposto alla qatariota beIN Sports e promette di contrastare la pirateria televisiva internamente con la chiusura di BeoutQ, facendo scomparire improvvisamente il grande ostacolo all’acquisto del Newcastle. E a quel punto, la Premier League ha cambiato idea e si è lasciata “convincere” dalle assicurazioni del PIF che lo Stato saudita non sarebbe stato coinvolto nella gestione quotidiana dei Magpies. Argomentazione al limite del paradossale: il Fondo Monetario dell’Arabia Saudita si dichiara slegato dal governo saudita, con cui però lancia strategie in ambito economico e commerciale per garantire crescita e diversificazione al bilancio interno. Mentre il governatore del PIF, Yasir al-Rumayyan, diventa non-executive chairman di una società di calcio, in una dirigenza che mostrerà anche i volti degli altri due protagonisti della cordata: Amanda Staveley, finanziera britannica fondatrice della società di private equity PCP Capital Partners, e Jamie Reuben, figlio del David Reuben fondatore della Reuben Brothers.

Al momento dell’annuncio, le piazze di Newcastle si sono riempite di tifosi bianconeri in festa. Dopo 14 anni di delusioni, i Magpies diventano di proprietà di una delle dirigenze più ricche del mondo del calcio e ora si sogna davvero in grande, di rivedere la squadra ai grandi livelli di un tempo, probabilmente anche oltre. Ci si prepara alla nascita di un nuovo gigante del calcio europeo, pronto a investire milioni su milioni per compiere in pochi anni una scalata impossibile senza folli investimenti. Il Newcastle diventerà la meravigliosa e scintillante vetrina del governo saudita, pronto a dimostrare di avere la potenza economica per trasformare qualsiasi cosa in oro. Non è diverso, in fondo, dal percorso seguito dal Qatar con il PSG e dagli Emirati Arabi Uniti con il Manchester City.

Ma per l’Arabia Saudita, l’ingresso nel mondo del calcio non sarà solo uno spot per la propria forza commerciale ed economica o un mero strumento di soft power. Sarà, a tutti gli effetti, la perfetta espressione del cosiddetto sportwashing, del “lavarsi” dei propri crimini attraverso i successi, le vittorie e la capacità organizzativa nel mondo dello sport. Non è il primo Paese a farlo, non sarà probabilmente l’ultimo, se la via che si è deciso di intraprendere è questa. Ma chi si ricorderà di Khashoggi il giorno in cui i Magpies dovessero vincere i primi trofei? Chi avrà davanti agli occhi i disastri che vive quotidianamente lo Yemen anche per colpa dei sauditi o le discriminazioni e oppressioni interne quando sarà presentato in conferenza stampa l’ennesimo colpo di mercato? Ve lo ricorderete voi lettori, se dovesse venirvi la tentazione di comprare la maglietta bianconera con dietro scritto il nome di un campione di livello mondiale?

Se non ve lo ricorderete voi, se lo ricorderà Hatice Cengiz, la fidanzata di Jamal Khashoggi che da anni lotta per la verità, per sapere quantomeno dove sia il corpo del giornalista. Si fa tante domande anche lei, mentre nelle piazze scoppia la festa: “Spero che i tifosi e i giocatori del Newcastle United chiederanno conto ai proprietari e chiederanno: perché nessuno sa dove sia il corpo di Jamal? Perché non c’è stata giustizia per Jamal? È una vergogna”. E lo è davvero, aggiungiamo, anche per noi, che issiamo le bandiere del “calcio del popolo” a giorni alterni, ma poi ci dispiaciamo se questa “fortuna” non è capitata alla nostra squadra del cuore. E fidatevi: se questo è il prezzo da pagare, meglio così.