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I Pionieri del Calcio – La storia di Nita Carmona, prima calciatrice fra gli uomini

Anita Carmona Ruiz, per tutti Nita, si era innamorata del calcio. La scintilla era scoccata al porto di Málaga, dove il padre lavorava come scaricatore. Erano bastate un paio di partite di pallone, giocate tra i marinai inglesi appena arrivati da Gibilterra, a far nascere quel sentimento. Da quel momento Nita aveva un chiodo fisso: giocare a calcio, costi quel che costi. E in un’epoca in cui in Spagna alle donne era preclusa l’attività sportiva, perché ritenuta “pregiudiziale per la salute”, era quasi un’impresa. Ma non si dette per vinta. Si raggomitolava i capelli all’interno di un cappello e collocava delle bende intorno al seno per nasconderlo. Solo camuffandosi da uomo avrebbe potuto giocare con gli uomini.

Anita era nata il 16 maggio 1908 nel quartiere malagueño chiamato Capuchinos. Aveva cominciato a giocare a calcio precocemente, quando era ancora una bambina. Secondo il giornalista Jesús Hurtado, che nel suo blog Velezedario ha ricostruito tutta la vicenda, già in età giovanile Nita partecipava alle partite che si disputavano nella spianata vicina alla caserma di Artiglieria, che qualche anno più tardi (1925) sarebbe diventata il campo delle Scuole Salesiane di Padre Francisco Miguez Fernández (oggi conosciuto come campo di Segalerva).

Padre Francisco Miguez Fernández era il suo più grande sostenitore. Questo parroco galiziano – che nel 2007 è stato beatificato da papa Benedetto XVI – era, come Nita, innamorato del calcio. Sotto la protezione delle linee educative salesiane aveva fondato lo Sporting Málaga e si era dato un gran da fare per la proliferazione di questo sport. Per far entrare Nita in squadra l’aveva inizialmente arruolata come assistente del massaggiatore Juanito Marteache. Non passò molto tempo e Nita cominciò a giocare qualche partita. Ma solo quelle in trasferta perché così non poteva essere riconosciuta.

Nita si allenava costantemente da sola e affinò una buona tecnica. Era alta, combattiva e dominava il gioco aereo. Un centrocampista che avrebbe fatto comodo a qualsiasi squadra. Non veniva mai indicata nella formazione che compariva sui giornali, al posto del suo nome c’era una X. Ma cominciarono a trapelare le prime maldicenze, messe in piazza da alcuni compagni invidiosi a cui Nita aveva strappato il posto in squadra. Cominciarono i primi atti di derisione della gente. “Quando veniva scoperto che era una donna il match veniva fermato e il pubblico cominciava a insultarla, sputargli addosso, inseguirla e addirittura a tirarle pietre”, spiega Hurtado.

A parte la nonna Ana, che spesso era sua complice nel coprirla, Nita si scontrò con un ambiente familiare ostile. I suoi genitori, una volta scoperto l’accaduto, decisero di “esiliarla” a Vélez-Málaga, un paese di 25.000 anime in cui vivevano alcuni parenti. Uno zio medico aveva infatti consigliato l’allontanamento della ragazza da casa “per non continuare a mettere a repentaglio la sua vita”. Ma anche nel capoluogo de La Axarquía continuò, sotto lo pseudonimo di Veleta (trad. banderuola), a giocare a pallone. Al Vélez gli tagliarono i capelli, la squalificarono, la castigarono rinchiudendola in casa. Ma non gli tolsero la voglia di tirare calci ad un pallone.

Quando nel 1940, a soli 32 anni, morì per una forma molto grave di tifo, Nita chiese di essere sepolta con la maglia dello Sporting Málaga. A lungo la sua storia è rimasta nascosta, finemente custodita da chi voleva proteggerla. Veleta era solo un nome qualunque, adesso è un nome scolpito nella leggenda. Quello di una donna che ha sfidato la società retrograda per inseguire il suo sogno. Nita non è più una banderuola, è diventata un simbolo e un esempio. Anche oggi.