Che cosa accadrà allo sport femminile e ai diritti delle donne nell’Afghanistan dei Talebani?
“È straziante. Dopo vent’anni che tentiamo di uscire da tutto quello schifo che è successo, ora siamo punto a capo. È sconvolgente”. Nadia Nadim, stella della Nazionale danese di calcio e oggi tesserata del Racing Louisville, mostra sul volto un misto di rabbia, paura e tristezza mentre parla ai microfoni NewsRadio 840 WHAS, subito dopo la fine della partita contro il NY/NJ Gotham FC. L’ex calciatrice del PSG sa che cosa significa vivere sotto il regime dei Talebani, essere costretti a scappare dal proprio Paese e provare a costruirsi una nuova vita altrove: nel 2000, i Talebani uccisero suo padre, un generale dell’Esercito nazionale afghano, e per lei e la sua famiglia, a quel punto composta da sole donne, non era rimasta altra scelta se non abbandonare la propria terra. Nadim è diventata poi un simbolo di riscatto e realizzazione dei propri sogni sportivi, anche se lontana dalla propria casa e costretta a ripartire come rifugiata in Danimarca. Ma lei per prima sa bene che cosa sta accadendo in questi giorni in Afghanistan e di ciò che potrà accadere a tante atlete e donne nel prossimo futuro.
Le immagini e i filmati che arrivano dall’Afghanistan sono già segni del ritorno di un incubo, primi avvisi di ciò che attenderà, al di là delle promesse di facciata dei portavoce dei Talebani, a chi ha collaborato con il governo afghano e gli occidentali in questi anni, le minoranze, i giovani. E, soprattutto, alle donne e ai loro diritti, per cui faticosamente si è lottato in questi ultimi due decenni pur di riuscire a scalfire una tradizione fortemente patriarcale e rurale. È a loro che stanno andando i primi pensieri di tutti, di chi non accetta il rischio di un ritorno a un’epoca buia, di oppressione. Alcune chiedono aiuto con filmati o interviste, ci supplicano di intervenire prima che sia troppo tardi. Ma, in realtà, è già scaduto il tempo: a Kabul vengono coperti i manifesti raffiguranti modelle a volto scoperto per evitare ritorsioni, mentre nei territori occupati dai Talebani sono già imposti il burqa, limitazioni delle libertà personali e dei diritti di accesso a tutto ciò che rientra nel nostro concetto di “quotidianità”. Da alcune testimonianze emergono persino drammatiche liste di donne destinate a essere trasformate in bottino di guerra per i Talebani.
Lo strazio a cui fa riferimento Nadim è proprio questo. I pochi passi in avanti fatti in questi anni per permettere una maggiore emancipazione delle donne e dare vita a una generazione di giovani finalmente libere dagli obblighi sociali e religiosi stanno per essere cancellati. È un discorso che vale, inevitabilmente, anche per le atlete e le tante donne che finalmente stavano provando a conquistare il diritto all’accesso allo sport, nel tentativo di sgretolare i pregiudizi di una società che, anche dopo la caduta dell’Emirato islamico nel 2001, si è spesso mostrata poco incline ad accettare maggiori libertà per le donne.
Quanto potrà essere stravolta la vita delle persone lo capiamo già dai cambiamenti a cui si sta assistendo in queste ore. Soltanto lo scorso ottobre l’Afghanistan assisteva ai festeggiamenti per la vittoria del campionato femminile di calcio da parte delle giocatrici dell’Herat Storm nello stadio di Kabul, un tempo luogo di esecuzioni e mutilazioni da parte dei Talebani verso chi trasgrediva le norme del Corano, almeno nella sua lettura alterata ed estrema. Pur limitate dalle ancora stringenti norme sociali imposte (panchine che separano uomini e donne, abbigliamento sportivo comprendente l’uso di leggins sotto i calzettoni e l’hijab a coprire il capo), quelle ragazze felici di correre e urlare in mezzo al campo erano diventate la massima espressione della libertà, frutto di due decenni di lotte e attivismo per superare l’epoca in cui alle donne non era consentito nemmeno di lasciare casa. Di quelle immagini oggi non c’è più niente e, secondo le prime testimonianze, i dirigenti delle varie Federazioni starebbero già temendo vendette da parte dei Talebani per aver promosso nel Paese alcuni sport, tra cui il calcio appunto, e già avrebbero chiesto rifugio ad altri Paesi come l’India, nella speranza di salvarsi da un potenziale bagno di sangue.
È fondamentale una premessa: i passi avanti fatti in questi anni in Afghanistan vanno apprezzati ma non sovrastimati. Dietro alle timide opportunità offerte a sempre più giovani di affacciarsi al mondo dello sport ci sono pur sempre decenni di strenue battaglie di attivisti, organizzazioni e federazioni e il processo di emancipazione delle atlete è tutt’altro che concluso, se si considerano le continue frenate avvenute in questi anni. Sicuramente per un fattore culturale-sociale, come detto sopra: nell’estremamente composita società afghana, resta ancora forte una mentalità patriarcale, fortemente conservatrice e diffidente verso l’apertura al riconoscimento di nuovi diritti e libertà verso le donne. Non è nemmeno un caso che alle stesse Olimpiadi di Tokyo 2020 fosse presente soltanto una donna (la centometrista Yousofi) sui 5 atleti inviati. D’altro canto, questa resistenza al cambiamento da parte di diversi cittadini afghani sembrerebbe una delle ragioni che hanno contribuito a creare il terreno perfetto per permettere ai Talebani di continuare a reclutare militanti anche in questi anni di esclusione dal potere centrale.
Quando l’atteggiamento reazionario non è bastato, spesso si è finito per ricorrere addirittura alla violenza, persino tramite le istituzioni. Emblematico, anche in questo caso, quanto avvenuto nel calcio nel 2018, quando le calciatrici della Nazionale afghana accusarono il presidente della Federcalcio Keramudin Karim, in carica dal 2004, di violenze fisiche e stupri: accuse sfociate poi nella decisione della FIFA di bandire a vita il massimo esponente della dirigenza calcistica afghana.
Lo sport, insomma, sembra incarnare tutte le contraddizioni vissute in generale in questi 20 anni dall’Afghanistan. Da una parte, un continuo e difficile tentativo di apertura al mondo e ai diritti, di nuovi investimenti e progetti anche con il contributo economico dall’estero; dall’altra, le resistenze di importanti pezzi della società, la corruzione delle istituzioni che ha finito in più occasioni per cancellare gli sforzi fatti (e i fondi arrivati anche esternamente), la violenza espressa anche dai cittadini stessi verso chi si è fatto promotore dell’emancipazione femminile nello sport. Si è visto nel calcio, appunto, ma anche nel cricket, lo sport nazionale: i fondi stanziati dall’ambasciata statunitense per promuovere la squadra femminile sono di fatto tornati indietro facendo fallire il progetto, dopo le resistenze della federazione afghana e i tentativi dell’ad della commissione del cricket afghana di appropriarsi dei fondi.
Il ciclismo femminile è probabilmente il caso esemplare di questi continui contrasti. Un progetto nato con i contorni della favola, sfociato addirittura nella nomina per il premio Nobel per la Pace del 2016, ma che ha dovuto fare i conti con ripetuti scandali e passi indietro negli anni. Come accaduto nel 2016, quando l’allenatore della squadra e capo della federazione ciclistica, Haji Abdul Sediq Seddiqi, venne licenziato dal Comitato Olimpico dell’Afghanistan per l’ambigua gestione dei generosi fondi raccolti e condotta immorale. Ma anche la risposta della società è stata spesso dura, fortemente intollerante: le donne che vanno in bicicletta sono rifiutate, insultate, ritenute delle provocatrici sul piano sessuale, aggredite, a volte persino prese a sassate.
Tante cicliste, comprese quelle candidate al premio Nobel del 2016, sono costrette a vivere lontano dalla propria patria, e le 75 presenti in Afghanistan possono spesso godere solo della protezione del presidente della Federazione Ciclistica Fazli Ahmad Fazli e il coordinamento e allenamento della 22enne Rukhsar Habibzai. “Anche io ho un sogno: vorrei che il ciclismo diventasse parte della nostra cultura. Sarebbe bello vedere le nostre ragazze pedalare felici senza paura. Io sono una atleta e vorrei che a me e a tutte le donne venisse data la possibilità di allenarsi e gareggiare, perché noi possiamo vincere competizioni importanti. Quando iniziai a pedalare gli uomini, specialmente quelli che ci vedevano per la prima volta, ci sputavano, ci lanciavano pietre, provavano a investirci con le loro auto. Quei negozianti che avevano la bottega lungo le vie dove pedalavamo ci lanciavano di tutto: sono stata colpita da patate, mele, mille altre cose. E usavano parole molto offensive contro di noi, imbarazzanti, che quasi ci si vergognava a essere una donna””, disse la stessa Habibzai.
L’odio ha finito per prevalere anche sui sogni, come quello di partecipare alle Olimpiadi di quest’anno: le biciclette delle atlete afghane sono state distrutte agli inizi del 2020 e non è stato dunque possibile gareggiare per le qualificazioni. L’unica afghana a essere stata presente in Giappone è stata Masomah Alizada, ma sotto la bandiera dei rifugiati: nella prova a cronometro sotto il suggestivo Monte Fuji, la ciclista ha realizzato quel sogno coltivato prima a Kabul e poi in Francia, dove aveva trovato asilo, riuscendo finalmente a gareggiare a delle Olimpiadi.
Il movimento, però, nonostante tutto è continuato a crescere. La Federazione contava 220 atlete tesserate l’anno scorso, in diverse migliaia usavano la bicicletta nelle città, mentre alla fine del 2020 è stata organizzata la prima, storica gara di ciclismo femminile che ha coinvolto ben 45 atlete, nella speranza di promuovere questo sport anche nella società. Ma per il ciclismo, proprio come per tutti gli altri sport, sono in arrivo tempi durissimi che rischiano di soffocare per sempre la voglia di libertà di queste donne. Nello stesso anno, l’Afghanistan rischia di passare da momenti storici come l’apertura della prima palestra per donne a Kandhar (storica roccaforte proprio dei Talebani) e la partecipazione (ora annullata) della prima donna in rappresentanza del Paese alle Paralimpiadi (Zakia Khudadadi) a un ritorno all’Emirato islamico, in cui i Talebani finiranno per bandire ogni accesso allo sport femminile: si tratta di quanto più lontano dalla loro idea di società e le attività sportive finiscono per rendere visibili coloro che si pretende siano invisibili in pubblico come le donne.
Dall’Afghanistan, intanto, proseguono le chiamate e gli appelli. Tante atlete stanno provando a scappare o a nascondersi, perché sanno che i Talebani potrebbero passare di casa in casa in qualsiasi momento o qualche vicino potrebbe riferire che quelle donne fanno sport. I concittadini all’estero sperano nella salvezza di chi rischia di essere perseguitato dal nuovo governo, chiedendosi come sia stato possibile un così rapido e drastico tracollo del precedente esecutivo. Lo sport, un tempo simbolo della lenta eppure così importante emancipazione femminile nel Paese, rischia ora di tornare a essere proibito e inaccessibile. Mentre tutto il resto del mondo assiste inerme, provando vergogna per non essere riuscito a evitare tutto questo e chiedendosi, davanti alle immagini di chi scappa o chiede aiuto: che ne sarà di voi?
Khalida ⚽ Popal, together with the Afghanistan national women’s team, fought against sexual and physical abuse by Afghanistan’s football federation. We share their and many other inspiring activists’ remarkable tales.
📺 https://t.co/zFXz4Aob3t#KhalidaPopal #FIFPRO #Bosman25 pic.twitter.com/p0slo5ccl0
— FIFPRO (@FIFPRO) December 19, 2020