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Perché le parole di Simone Biles hanno tutto un altro peso in un Paese come il Giappone

Simone Biles è tornata a casa, nei “suoi” Stati Uniti, e sono già diverse le immagini della festa che tanti tifosi le hanno riservato a Times Square. C’è tanto entusiasmo attorno alla ginnasta, per una volta non tanto per le imprese sportive (pur portando a casa comunque una medaglia di bronzo tutt’altro che scontata), quanto più per il suo coraggio, per la forza dimostrata a Tokyo nell’ammettere la propria “umanità“, nel ricordarci che dietro agli atleti ci sono persone con le proprie storie, i propri sogni e, inevitabilmente, le proprie debolezze. Ha fatto breccia in un discorso, come quello sportivo, dominato da terminologie belliche ed eroiche, di esaltazione sfrenata e paragoni scomodi (se non addirittura mitologici) quando si raggiunge il successo e di durissime sentenze quando si sbaglia.

Biles è stata e resta un fenomeno della ginnastica artistica, a prescindere da queste Olimpiadi, ma da oggi quella figura di protagonista assoluta di questo sport verrà accompagnata all’immagine di Simone, una ragazza di 24 anni, che in conferenza stampa ammette: scusatemi, ma stavolta non ce la faccio. E, a sentire le ragioni di questo ritiro temporaneo, capiamo un po’ di più anche noi cosa significhi per un atleta dover convivere con i fantasmi della gloria, delle aspettative sempre alte, del dover accontentare tutti per non finire a picco.

Ma quanto stridono queste parole davanti alle storie dei centinaia di atleti giapponesi che, “colpevoli” di non aver vinto, hanno raccontato di aver subito minacce (“sappiamo dove abita la tua famiglia”, come si è sentito dire Jun Muzutani, argento nel doppio del ping-pong), insulti e tanto odio. “Ormai sai che se non vinci la medaglia d’oro vieni travolto dall’odio e sei costretto a sparire. Questo non permette più di competere sereni, le prestazioni ne risentono e molti di noi sono tentati di smettere”, ha ammesso il nuotatore Daiya Seto. In un contesto già pesante, di una popolazione contraria alle Olimpiadi e stanca delle restrizioni per il Covid, gli atleti sono diventati facile bersaglio online e offline. Ma in Giappone non si tratta affatto di una situazione transitoria, legata al difficile momento. C’è qualcosa di ben più profondo, radicato nella cultura sportiva di questo Paese, in cui la continua richiesta della perfezione degli atleti finisce per sfociare tante volte in veri e propri abusi. Insomma, per molti giovani sportivi è davvero impossibile dire “scusate, non ce la faccio”.

Ne avevamo già scritto qualche mese fa in un approfondimento dedicato alle violenze e abusi che subiscono i minorenni in ambito sportivo in Giappone, ma il tema resta di assoluta attualità, ancor di più dopo le parole di Simone Biles. Sulla base di alcune interviste e sondaggi raccolti da Human Rights Watch, erano state riportate le storie più orrende di 800 atleti provenienti da più di 50 sport: colpi in faccia, calci, fustigazione con oggetti come bastoni di bambù, privati di acqua, soffocamenti, persino abusi sessuali. “In nome dei successi alle competizioni internazionali e delle medaglie, insomma, intere generazioni stanno rischiando di attraversare traumi destinati a cambiare le loro vite da adulti.”, scrivemmo.

La richiesta al Governo giapponese da parte di Human Rights Watch e altre ONG è sempre stata chiara e ancora oggi valida: creare un Japan Centre for Safe Sport, un organo amministrativo indipendente con il compito di ricevere le denunce, stabilire potenziali soluzioni per gli atleti e le loro famiglie (spesso vittime a loro volta di gravi minacce quando tentano di esporre i fatti) e tutelare i minori identificando e decertificando gli allenatori violenti.

Secondo un report di HRW, il 46% degli atleti intervistati ha avuto esperienze con abusi fisici o emotivi durante gli allenamenti. Tra questi anche la nota ex giocatrice di pallavolo Naomi Masuko che, nonostante una carriera di grande successo, non dimentica le sofferenze e le pressioni per arrivare ai massimi livelli: “La pallavolo è uno sport di squadra, in cui ci si prende cura degli altri. Infatti devi metterti in prima linea per aiutare i tuoi compagni. Ma i miei ricordi più vivi sono quelli dei rimproveri. Quasi ogni giorno, gli schiaffi della mano del mio allenatore hanno lasciato un’impronta sulla mia faccia. Anni dopo, ho parlato al mio allenatore e ha mi ha detto che la sua generazione ha subito di peggio. Alla fine, ho capito che milioni di atleti in Giappone subiscono abusi violenti. Tocca a noi proteggere tutti gli atleti, anche se dobbiamo metterci la faccia nel parlarne.” 

Il diritto di non farcela, insomma, non è un privilegio che possono permettersi tutti nel mondo, in primis in Giappone. Per questo le parole di Simone Biles fanno rumore, soprattutto per il contesto in cui sono state pronunciate. Chiede più attenzione per la salute mentale degli atleti, di difenderli in ogni situazione, che sia dopo una vittoria o una sconfitta, perché il mondo non è in grado di frenare la pressione. Ha ragione Human Rights Watch a richiamarci le storie di chi ha passato l’incubo di non riuscire a gestire le attese, ma soprattutto le pretese di vittoria. E ha ancora più ragione a ricordarci che dovrebbe essere un diritto umano poter vivere lo sport con serenità, sentendo i successi come un’aspirazione e non un fardello o, peggio ancora, un vero e proprio obbligo. Un discorso che vale per Biles, per gli Stati Uniti, ma anche per il Giappone, che avrebbe dovuto sfruttare l’occasione delle Olimpiadi per fare passi avanti in questo ambito. Per il momento, però, ci restano in mano solo drammatiche storie di vita e speranze in un cambiamento certamente difficile, ma per cui si sta facendo fin troppo poco. E che rischia soltanto di creare tante Biles, impossibilitate a parlare.