“È incredibile. Passerò ancora molto tempo a guardarla, penso. Ho voglia di impararla a memoria”. Gli occhi di Luka Mkheidze, judoka di 25 anni appena riuscito a vincere contro il sudcoreano Kim Won Jin per il gradino più basso del podio del judo maschile 60kg nelle Olimpiadi di Tokyo 2020, sono pieni di emozione, mentre fissa la medaglia di bronzo. Quel terzo posto vale un oro per il ragazzo classe ’96 e lo si capisce da quel mix di incredulità ed entusiasmo che lo accompagna nelle interviste a fine gara. Mkheidze sa di aver appena vinto una medaglia a delle Olimpiadi, per di più nel prestigioso palcoscenico del Nippon Budokan, anche a porte chiuse un vero e proprio santuario delle arti marziali giapponesi e pezzo di storia per ogni judoka. In una giornata complessivamente grigio scura per la Francia come quella dell’esordio di sabato, il judo maschile ha regalato ai transalpini l’unica luce e la prima medaglia della competizione. Ed è un trionfo ancora più bello per la storia di chi ha conquistato quel podio: un giovane di origini georgiane, che fino a qualche anno prima era senza nazionalità francese e si era visto ottenere un visto come rifugiato politico.
Per provare a capire almeno in parte l’emozione negli occhi di Mkheidze, bisogna raccontare la sua storia e di come si è arrivati al trionfo di questo sabato 24 luglio, perché la sua vita, fatta di sofferenza, emarginazione e riscatto, non è esattamente comune. E si parte facendo un salto indietro, al 2008, quando il ragazzo di Tbilisi, allora 12enne, viene costretto a fare una scelta che oggi, qualche utente dei social, definirebbe magari persino codarda: assieme alla sua famiglia, Mkheidze scappa dalla Georgia. Sullo sfondo ci sono ancora le conseguenze di una guerra troppo velocemente dimenticata, eppure foriera di conseguenze politiche e umane notevoli come il secondo conflitto dell’Ossezia del Sud. Una guerra che, in pochi giorni, ha provocato circa 800 morti, numerose violazioni delle leggi di guerra, villaggi abitati dalla popolazione di etnia georgiana distrutti, odio etnico e sfollati, in un territorio ancora oggi de facto indipendente e finito ormai nell’orbita russa.
Per la famiglia di Luka Mkheidze la situazione è intollerabile e non resta che lasciare la Georgia. Finiscono prima in Bielorussia, poi in Polonia, dove però si vedono rifiutare il riconoscimento dello status di rifugiato. A quel punto, non resta che provare una nuova strada, andando ancora più verso Occidente. Come raccontato da Mkheidze stesso, la sua famiglia si è così ritrovata a dover pagare per farsi trasportare in Francia, per la precisione a Villeneuve-Saint-Georges (Val-de-Marne), dove un prete di una piccola chiesa ortodossa ha poi deciso di prendersi cura di loro, garantendo finalmente un luogo sicuro.
La vita di Mkheidze è in continuo spostamento, in seguito al riconoscimento dello status di rifugiato politico: prima finisce al XIX Arrondissement di Parigi, nel nord-est della Capitale, poi si trasferisce definitivamente a Le Havre. Con sé, il ragazzo georgiano non ha molto, se non una lettera tradotta in francese, in cui si dichiarava la sua enorme passione per il judo: uno sport scoperto alla televisione in Georgia e rimasto scolpito nel suo cuore, soprattutto perché capace di far sentire orgogliose tante persone durante le Olimpiadi, ma anche perché il sogno di suo padre. Affascinato da questo effetto sui propri concittadini, Mkheidze ha sentito dentro di sé la fiamma giusta e la voglia incontenibile di regalare le stesse emozioni ai tifosi.
Quella lettera si trasforma in un biglietto da visita quando il giovane decide di farla vedere al Judo Club Bolivar, la stessa scuola in cui è cresciuto un altro judoka francese di livello internazionale come Teddy Riner. Da lì, Mkheidze ha cominciato la propria scalata, dimostrandosi da subito un talento fuori dalla norma. E non ha dubbi sul fatto di sentirsi pienamente francese e di voler rappresentare in futuro i transalpini, come rivelò in un’intervista a un giornalista. Ma dopo aver vinto nella categoria “junior” a livello nazionale, Mkheidze poteva rappresentare la Francia nelle competizioni europee solo se sulla propria carta d’identità fosse stata presente la nazionalità francese.
Il mondo del judo comincia allora a muoversi e la richiesta di riconoscimento della nazionalità arriva anche alla politica. Un’istanza che viene però presa subito a cuore dall’attuale primo ministro francese e allora sindaco di Le Havre, Édouard Philippe: il primo cittadino decide di spingere e bruciare i tempi con la burocrazia, riuscendo nel 2016 a concludere l’iter e a permettere a Mkheidze, con una cerimonia ufficiale, di ricevere il riconoscimento tanto desiderato. “Ho tirato un sospiro di sollievo, sapevo che da quel momento si aprivano delle porte per me. Mi sentivo anche più integrato“, dice oggi l’atleta guardando agli episodi di qualche anno fa, “Sono arrivato giovanissimo, non era facile adattarmi a una cultura molto diversa, di imparare la lingua, è stato complicato, ma penso di essermi ben integrato.”
Curiosamente, Mkheidze non avrebbe partecipato alle Olimpiadi se si fossero svolte nel 2020. Non era stato previsto un posto per lui con la Nazionale francese, ma la conquista della medaglia d’argento ottenuta agli Europei lo scorso aprile hanno dato una svolta imprevista alla sua carriera, rilanciando la sua candidatura per Tokyo, ma nel 2021. Il destino lo ha premiato, chiudendo un cerchio cominciato ormai 13 anni fa: il ragazzo scappato dalla Georgia per la guerra è oggi il primo atleta ad aver fatto vincere una medaglia a quella che ora è ancora di più la “sua” Francia.