Il calcio italiano torna protagonista sullo schermo. Dopo il documentario e la miniserie televisiva dedicati a Francesco Totti stavolta si parla di Roberto Baggio, soggetto del film Il Divin Codino diretto da Letizia Lamartire. La pellicola, distribuita a fine maggio sulla piattaforma streaming Netflix, celebra il calciatore focalizzando in particolare su tre momenti distinti della sua carriera calcistica: il trasferimento dal Vicenza alla Fiorentina in Serie A, i mondiali negli Stati Uniti con Arrigo Sacchi commissario tecnico e infine la sua stagione conclusiva con la maglia del Brescia. Periodi accomunati dalla ricerca del raggiungimento di precisi obiettivi calcistici: rispettivamente affermarsi nella massima serie come aveva fatto in C, trascinare l’Italia alla vittoria di Usa 1994 e ottenere la convocazione ai Campionati Mondiali del 2002. La parte di Baggio è stata affidata al giovane pescarese Andrea Arcangeli.
La scelta di raccontarlo soffermandosi su questi singoli episodi di una lunga e sfolgorante carriera sta probabilmente nella frase: “Il percorso conta più dell’obiettivo: se sai di avere fatto tutto quello che potevi, e di averlo fatto al meglio, hai già vinto”. Raggiungere il traguardo ha una sua importanza, ma ciò che è accaduto in precedenza, il percorso lungo il quale una persona si muove e agisce per ottenerlo è fondamentale e motivante per l’individuo stesso. Baggio forse ne è anche l’emblema più eclatante di tale pensiero. Ci sono campioni che entrano nella storia grazie a un successo sportivo. Il palmares di Baggio invece non vanta né la Coppa Campioni né il Mondiale, eppure è uno dei calciatori più forti mai esistiti e soprattutto uno dei più amati dai tifosi italiani proprio per ciò che ha realizzato in campo anche senza arrivare necessariamente ad alzare un particolare trofeo.
Un altro argomento principe del film è il buddismo. L’ingaggio di Baggio con la Fiorentina negli anni ottanta infatti fu funestato da un duro infortunio, che lo costrinse a un percorso di rieducazione fisica prima di esplodere e diventare l’idolo dei tifosi viola. La delusione lo portò anche a meditare di mollare tutto, ma è proprio in questo frangente che iniziò il suo avvicinamento alla religione buddista. Da quel momento fu di grande aiuto nelle situazioni di maggiore difficoltà e nel film ne viene esaltato proprio il ruolo fondamentale che ebbe nella vita del calciatore.
Ci sono poi i rapporti. Il più criptico è quello con il padre, interpretato da un considerabile Pennacchi. Un genitore con un ruolo da guida nascosta: cerca di stimolare il proprio figlio, ma al tempo stesso lo spinge a conservare un tono di umiltà per non deviare troppo dal famoso “percorso” citato in precedenza. C’è il confronto con Arrigo Sacchi, il cui ruolo è toccato a un ottimo Antonio Zavatteri; Baggio ha avuto diversi conflitti con gli allenatori però in questo caso traspare la fiducia del tecnico, che riesce a conquistarsi grazie anche alle ottime prestazioni ottenute dalla gara con la Nigeria in poi. L’incontro con Mazzone, interpretato da un Martufello più ciociaro che romano, invece è rustico e genuino. Infine la famiglia, la moglie Andreina, la cui vicinanza ha sempre rappresentato un valore aggiunto.
Il film probabilmente è destinato a deludere chi si aspetta un tributo al Baggio giocatore con una narrazione precisa. Pochissime le immagini d’archivio, quasi tutte le scene sul campo sono state ricreate. Lo scopo del regista del resto era altro, incentrarsi più sull’aspetto umano. Meritano però una citazione di rilievo i dettagli delle magliette calcistiche usate nelle scene, curate nei minimi dettagli tra sponsor e lineamenti, una particolarità che non passerà inosservata tra gli appassionati.