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Emery si è riconquistato il rispetto

Per regalare la prima Europa League della storia a una città di 50mila abitanti come Villarreal serviva uno specialista di questa competizione dei livelli di Unai Emery. A Danzica, il tecnico spagnolo si è preso tutto: la quarta Europa League della sua carriera, diventando così l’allenatore con il maggior numero di vittorie di questa competizione (staccato, dunque, anche Giovanni Trapattoni); una vittoria prestigiosa, conquistata con la lotta, ma tutto sommato; ben gestita contro un Manchester United rimasto quasi sempre sottotono nel corso della gara; ma, soprattutto, si è riconquistato quel rispetto e quella dignità che le esperienze al PSG e all’Arsenal sembravano aver cancellato.

La vittoria del Villarreal, pur essendo arrivata soltanto ai rigori, non era affatto scontata e nei momenti migliori dello United abbiamo anche capito il perché. Il divario tecnico tra le due rose esisteva, era concreto: i Red Devils possono contare su giocatori potenzialmente geniali, capaci di accendersi e mandare in crisi anche avversari di qualità con giocate veloci e movimenti intelligenti. Se questa differenza è rimasta a lungo in sordina o non ha comunque permesso alla squadra di Solskjær di prevalere nei 120′, salvo qualche momento di particolare furore, è stato merito principalmente del modo in cui Emery ha preparato la gara, evidenziando i limiti tattici che Solskjær fatica a sistemare. Il basco ha lasciato il possesso agli avversari, ne ha accettato la superiorità nel girare palla, ma senza perdere quasi mai il controllo delle azioni dello United.

Come già visto anche nelle precedenti partite, in particolar modo contro l’Arsenal in semifinale, gli spagnoli si sono dimostrati una squadra straordinariamente ordinata, intensa in fase di pressing, capace di abbassarsi quanto necessario, con movimenti in sincrono, per annullare la maggior qualità avversaria e provare poi a colpire sfruttando con furbizia occasioni di rapina. Questo Villarreal è un mix di qualità e quantità, di esperienza e promettente gioventù: una squadra che può contare sul talento fresco di Pau Torres e l’imperiosa presenza di un Albiol confermatosi a un livello superiore anche in questa competizione, nonostante l’età avanzata; sulla lucidità di Parejo, centrocampista dall’intelligenza e organizzazione troppo spesso sottovalutata, e l’intensità di gioco di Capoué, capace di annullare con la sua fisicità e presenza i possibili pericoli creati da Fernandes (che, infatti, ha concluso la gara senza nemmeno un’occasione creata); sulla capacità di spaziare in più ruoli in campo di Trigueros, lo spirito combattivo di Foyth, la sostanza di Pino. Senza ovviamente dimenticare le doti di un Gerard Moreno confermatosi come uno degli attaccanti più moderni in circolazione, capace di garantire gol, ma anche ottime letture spalle alla porta per tenere il pallone, far salire la squadra e leggere i movimenti dei compagni a memoria da trequartista puro.

Nell’arco di un solo anno, Emery ha reso il Villarreal a sua immagine e somiglianza, anche grazie a una dirigenza che ha saputo rispettare le sue richieste sul mercato. Lo spagnolo si è ritrovato in mano una squadra combattiva, intensa, capace di difendere con precisione e sfruttare con intelligenza e praticità le occasioni create. In Liga, il Sottomarino Giallo non ha brillato, ma è in Europa che abbiamo visto la sua miglior versione, sulla scia del modello Siviglia che lo stesso Emery aveva contribuito a creare. Il tecnico basco è rimasto sempre fedele a sé stesso, anche negli atteggiamenti: estremamente agitato in panchina, emotivamente trascinato dalle gare, esigente nel richiedere battaglia e sacrificio ai suoi giocatori.

Questa Europa League, però, è anche una rivincita personale. Il sistema Emery non ha funzionato (o quantomeno: non è riuscito a essere davvero interiorizzato dai giocatori allenati) nelle precedenti esperienze estere, né a Parigi né a Londra, due città in cui il volto dello spagnolo è associato a immagini ben poco concilianti: la remuntada clamorosa del Barcellona per 6-1 al Camp Nou in Champions League e i “good ebening” con cui esordiva in ogni conferenza stampa con l’Arsenal. Non esageriamo nel dire che in Inghilterra Emery abbia subito un trattamento al limite del bullismo, tanto da parte della società quanto dai giocatori e tifosi. Raramente difeso pubblicamente dalla dirigenza, abbandonato da una squadra che pochi mesi prima era riuscita ad arrivare comunque a una finale di Europa League, deriso praticamente ovunque per le difficoltà linguistiche e comunicative, per quanto difficilmente perdonabili nel calcio globalizzato di oggi.

Emery ha avuto l’umiltà di fare un passo indietro e ritornare in Spagna, in una dimensione in cui ormai si è affermato come uno dei migliori tecnici dell’ultimo decennio. Niente più barriere linguistiche, un calcio più vicino alle sue idee, con una società che si è totalmente messa nelle sue mani pur di rialzarsi dopo annate non particolarmente esaltanti. Il Sottomarino Giallo ha vinto la sua scommessa e il tecnico basco si è ripreso la nomea di “El Maestro” che lo ha accompagnato per anni. Ora davvero nessuno può dire di aver mai toccato i livelli di Emery nelle vittorie della seconda competizione europea per club.