Primo Piano

L’aggressione alla figlia di Grassadonia ci deve far chiedere fino a che punto ammetteremo la violenza

Spinte, calci, insulti, minacce rivolte al padre “così capisce”. A poche ore dall’ultimo capitolo della stagione regolare di Serie B, il nostro calcio si macchia dell’ennesimo caso di violenza, stavolta da parte di alcuni sostenitori della Salernitana verso una ragazza di 18 anni “colpevole” di un solo fatto: essere la figlia di Gianluca Grassadonia, allenatore del Pescara che domani affronterà i campani, diventando l’ultimo ostacolo al potenziale ritorno dei granata in Serie A. È stata la madre della giovane e moglie del tecnico ad aver condannato sui social il folle episodio, l’esito più drammatico di un continuo susseguirsi di giornate cariche di minacce, preannunciando l’intenzione della sua famiglia di lasciare la città. Persone costrette a scappare dal posto che considerano casa e ad allontanarsi dalla propria vita quotidiana per colpa di una partita di calcio.

Il gesto di questi criminali, nascosti dietro la facile bandiera di essere parte della tifoseria di una squadra, va molto oltre l’episodio in sé. È, come sempre, una questione più profonda: di cultura e di come stia evolvendo la nostra società verso un clima di costante odio, spesso creato prima online e in un attimo destinato a sfociare nel mondo reale. Nel comunicato ufficiale di stigmatizzazione dell’accaduto, la Salernitana ha evidenziato questo aspetto: un’aggressione nata dalla circolazione di notizie false su Grassadonia, da una crescente spirale di intolleranza e violenza che si autoalimenta, fino al punto di accecarti e portare persone con vite totalmente vuote ad aggredire una figlia di 18 anni.

Indignarci verso questi pseudo-tifosi non basta più. La violenza nasce sempre da qualcosa di più profondo e tocca tutti noi che siamo parte di questa società così malata. Da giornalisti, dovremmo chiederci tutte le volte che pubblichiamo un pezzo quali saranno i suoi effetti e in che modo stiamo dando un contributo a tutti, proteggendo intere famiglie da episodi di odio indiscriminato. Da cittadini, dovremmo chiederci in continuazione quali effetti sortiscono dai nostri gesti quotidiani. Dire “io non sono come loro”, prendere le distanze e mettersi così a posto con la coscienza non è sufficiente. Dobbiamo lavorare tutti i giorni affinché l’asticella della violenza non continui ad alzarsi come sta facendo, venendo ammessa implicitamente o, nei peggiori dei casi, addirittura giustificata.

Perché persino davanti a questi episodi, lo sappiamo, qualcuno ha sempre il coraggio di metterci un “ma” finale. È la giustificazione di chi pensa che la violenza e le minacce in alcuni casi possano essere anche ammissibili, che il Pescara e il suo allenatore farebbero bene a “scansarsi”, salvo poi lamentarsi quando si assiste a partite con squadre che fanno melina. Un gesto così è ancora più odioso, se possibile, perché fatto nei confronti di un tesserato di una società che ha fatto numerose campagne social contro discriminazioni, razzismo, violenze a livelli senza eguali nel calcio italiano. Ovvero una società che non si limita mai ai semplici episodi, ma cerca di sensibilizzare la propria tifoseria in ogni occasione, accompagnando alla porta chi non si identifica in questi valori. È il modello da prendere in considerazione in questa sfida per abbassare l’asticella dell’odio, che sta toccando livelli preoccupanti. Dopo aver assistito all’aggressione di una ragazza per essere la figlia dell’allenatore avversario, cosa ci aspetterà?