“Il miglior giocatore contro cui abbia mai giocato, basta questo per definirlo”. Dipinse ‘di lui’ – calcio raccontato su tela – Diego Maradona quando gli chiesero dei migliori. Per chi conosceva bene quel calcio anni ’80, non era affatto una sorpresa che il preferito di Diego fosse proprio quel tedesco: Lothar Matthäus, classe ’61, di pochi mesi più giovane rispetto al ‘Dios’, di pochi centimetri più alto. Un gradino più in basso rispetto alla leggenda, sullo stesso podio Mondiale. Lothar, un nome che ne descrive il destino sui decibel di un grido di battaglia teutonico.
Nel box del suo calcio c’era tutto: concentrato di tecnica, potenza, freddezza, esplosività. Completo e campione, più ‘quadrato’ che ‘tondo’, per eccellenza: il “giocatore”.
Tre vite da calciatore, polivalente il bagaglio tecnico nella coniugazione del paradigma difesa-centro-attacco (score da oltre 200 reti). Cresciuto mediano (nel M’Gladbach), divenuto interno a tutto campo (all’Inter del Trap), maturato libero con responsabilità direttive dell’intera manovra al Bayern Monaco negli anni ’90. Europeo ’80 e Mondiale ’90 (entrambi vinti in Italia) fiore all’occhiello di una bacheca ingombrante che ha solo un posto vacante. Non quella destinata al Pallone d’oro, stravinto a conclusione di quel fantastico 1990, apice di carriera. Che ha un’unica pecca, anzi una beffa. Quella Champions League del 1999, che avrebbe chiuso il cerchio senza buchi. Camp Nou di Barcellona 26 maggio, finale tra Bayern Monaco e Manchester United: Matthäus esce all’ 80′ sull’uno a zero Bayern ma nei minuti di recupero lo United capovolge il risultato e si aggiudica la coppa. Tutto sotto gli occhi di Lothar… ma da bordo campo.
Non fu un dramma per lui. Capace di giocare il suo ultimo Mondiale (il quinto) a Francia ’98 e l’ultimo Europeo (2000) a 39 anni. Record da stropicciarsi lacrime dagli occhi se solo si ripensa alla leggendaria sfida contro Maradona nelle due finali Mondiali consecutive che li hanno visti eroici protagonisti. A Città del Messico ’86, com’è noto, la spunta il fuoriclasse argentino, al termine di una prestazione buona ma non eccelsa come nelle precedenti prestazioni: la marcatura di Lothar a uomo, imposta dal CT Beckenbauer, limita sostanzialmente l’eccezionale forma dell’argentino soprattutto nel primo tempo. Ma è l’Argentina di Maradona a vincere, prima di rendere la Coppa proprio alla Germania quattro anni dopo a Roma. L’oro Mondiale passa dalle mani di Diego a Lothar: per il passaggio di consegne più leggendario di sempre.
Furono proprio le prestazioni ‘contro’ che fecero avvicinare i due assi in quei generosi anni ’80. Diego capì subito che quel tipo tedesco che gli stava spesso intorno, per nulla grosso ma tremendamente grande giocatore, era uno di quelli imprescindibili nella sua squadra ideale. A Napoli, infatti, dopo quel Mondiale ’86, pregò il presidente Ferlaino di portarlo nella rosa neo-scudettata. Pochi mesi dopo lo stesso Ferlanio pregò il neo diggì Moggi di partire verso Monaco con due grosse valigie. Fu poi lo stesso Lothar a spiegare: “Vennero a Monaco, in un ristorante, erano in quattro, con due valigie piene di soldi dicendo che dovevo giocare con Maradona a Napoli. Fui molto lusingato ma dissi loro che mi ero già accordato con l’Inter per la stagione successiva. Sono uno di parola, ma non la presero benissimo”.
Fu all’Inter che maturò la sua prima metamorfosi tecnico-tattica. Trapattoni gli impone di lasciare quella vita da mediano e cercare, attraverso il suo istinto, le vie del campo che poco dopo divennero infinite. Lothar mutò presto dall’uno al trino: mediano, regista e incursore. Mutò anche numero di maglia. Poiché il Trap, che evidentemente colse l’attimo, un giorno lo prese e disse: “So che sei legato al numero 8 ma da oggi in poi ti darò sempre il 10, in Italia tutti i grandi giocatori giocano con il 10 e anche tu devi farlo. Fidati di me”. Si fidò, vinse (Scudetto e Coppa Uefa). Se ne andò Trap, si ruppe… l’idillio con l’Inter e con l’Italia. Non una carriera da leggenda.