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Che cosa ci insegna la tragedia del Morro Garcia?

Il calcio sudamericano piange la scomparsa di Santiago “Morro” Garcia. All’età di 30 anni, dopo una discreta carriera, l’attaccante uruguaiano si è suicidato sparandosi. Il giocatore soffriva da tempo di depressione ed era in cura presso uno specialista. Seppur in sé sia già tragica, la vicenda apre a un lato più oscuro del calcio o dello sport in generale. La FIFPro stima che il 38% dei calciatori soffra di disturbi mentali, più o meno lievi, mentre nella popolazione mondiale si parla di un numero che oscilla tra il 13% e il 17%.

È quasi paradossale come da una parte l’esercizio fisico stimoli le endorfine, gli ormoni del buon umore, e dall’altra apporti seri problemi di salute. Il problema è proprio la grande pressione mediatica che l’agonismo produce ad alti livelli. A volte può ledere al fisico, come in casi di infortuni gravi. Altre, come nel caso del Morro Garcia, può ledere alla salute mentale. Da anni stava combattendo contro la depressione, ma l’aveva confessato solo nel 2018.

Nel 2011 era stato squalificato dalla federazione uruguaiana per due anni, poi pena ridotta a 13 mesi, per aver fatto uso di cocaina. Però, la FIFA non confermò la squalifica e quindi potette continuare a giocare fuori dal proprio paese, andando a finire all’Atletico Paranaense. Tuttavia in Uuruguay, e non solo, lo hanno tristemente marchiato come un  “tossico dipendente”, nonostante la situazione non fosse mai stata riconosciuta a livello medico. Quello fu, a tutti gli effetti, l’inizio di tutti i suoi problemi.

Sembrava dovesse essere una stella del calcio sudamericano e internazionale. Nelle sue prime 100 presenze con la maglia del Nacional, sua squadra del cuore, ha a segno 46 reti. A 17 anni ha deciso un preliminare di Libertadores con un suo gol, entrando al posto di Diego Viera, ma la squalifica lo ha portato poi al fallimento dal punto di vista professionale. Non avendo più la testa veramente per giocare, ha iniziato ad assumere comportamenti particolari. Di ritorno al Nacional nel 2014 è stato protagonista di una rissa in campo contro il Penarol. Dopo l’espulsione, è stato poi portato in commissariato e di conseguenza sospeso dalle attività agonistiche per tre mesi.

La situazione si aggravò ulteriormente, e lui in quel periodo prese in considerazione il ritiro. Con gli anni che passavano, il suo quadro clinico peggiorava. A casa si isolava e non usciva per giorni, come testimoniano le parole del presidente del Godoy Cruz, sua ultima squadra. Il presidente José Mansur a dicembre aveva criticato Garcia: “Non puoi essere un leader e non presentarti agli allenamenti, o essere in sovrappeso” aveva dichiarato a Radio Andina. Dall’essere capocannoniere della Superliga argentina nel 2018 con 18 gol, el Morro era finito ai margini del progetto.

Seppur non in mala fede, le pressioni fatte dal vertice del club lo hanno destabilizzato del tutto nell’ultimo periodo. Dopo aver saputo che non gli avrebbero rinnovato il contratto, ha deciso di togliersi la vita. Si può capire benissimo come un datore di lavoro cerchi delle prestazioni, in cambio dello stipendio, dal suo dipendente. Tuttavia Mansur e tutti gli altri componenti della società avrebbero dovuto essere più sensibili nei confronti della sua condizione. Era risaputo di che male soffrisse, e un minimo di assistenza avrebbe potuto evitare la tragedia.

Dato tutto ciò, dobbiamo imporci una maggiore attenzione, sul tema, per il futuro. Nella situazione del Morro ci sono sicuramente tantissimi altri calciatori. Prima di criticare duramente, e a spada tratta, qualcuno di essi, mettiamoci nei panni di un calciatore. Analizzare il brutto periodo di un atleta è possibile farlo anche con termini più contenuti. Gli sportivi hanno una vita “normale” come tutti, al di fuori dello sport. Limitare la loro vita solo al loro lavoro sviluppa spesso ansia nel quotidiano, e a volte depressione.