Vittorio Staccione venne scoperto quasi per caso, nei campetti della periferia torinese, da Enrico Bachmann, capitano del Torino. Aveva cominciato ad amare il calcio fin da piccolo, per strada giocava insieme al fratello Eugenio con un pallone fatto di stracci. In lui scorreva sangue granata e il suo sogno era sempre stato quello di poter vestire, un giorno, la maglia del Torino. Finalmente, dopo anni di trafila nelle giovanili, il 24 febbraio 1924 esordisce in prima squadra.
Vittorio è un centrocampista promettente, il suo futuro sembra radioso. L’obbligo di leva (venne chiamato a svolgere il servizio militare a Cremona) costringe il Torino a mandarlo in prestito alla Cremonese. Il suo rendimento è proficuo, ma fuori dal campo viene ostracizzato. Cremona è la città di Roberto Farinacci, ras fascista: Staccione, che è socialista, è inviso al fascismo a tal punto che nelle cronache sportive sul giornale Cremona Nuova il suo cognome è sostituito da una X.
Le buone prestazioni convincono il Torino a riprenderselo. Il 27 ottobre 1926 viene inaugurato lo Stadio Filadelfia ma lui non può esserci perché alcuni fascisti gli hanno rotto due costole. Quella stagione i granata vinceranno lo scudetto, che gli verrà revocato per il caso Allemandi. E Staccione è uno dei protagonisti di quella annata vincente e al contempo amara. Il 20 marzo 1927, giorno del debutto del fratello Eugenio come portiere, veste per l’ultima volta quella maglia che, visceralmente, aveva sempre amato.
Passa quindi alla Fiorentina, nella quale diventa ben presto uno dei cardini del centrocampo. Purtroppo, però, durante la sua permanenza in viola gli accade un gravissimo lutto familiare: durante il parto muoiono la moglie Giulia e la figlia neonata, Maria Luisa. Questa tragedia lo rende ancora più introverso, chiuso in se stesso. E lo proietta verso il tramonto della propria carriera. Lascia il calcio a 31 anni, dopo aver vestito anche le maglie di Cosenza e Savoia.
Lasciato il calcio, lavora in diverse fabbriche torinesi. Fin da giovane aveva mostrato di essere un antifascista convinto, aveva frequentato alcuni circoli socialisti. E per questo era stato spesso vittima di aggressioni fasciste. L’OVRA (la polizia segreta del regime) lo mette spesso nel mirino e le cose precipitano con l’inizio della guerra: viene spesso arrestato, schedato, fotosegnalato. La sua partecipazione all’organizzazione dello sciopero del 1 marzo 1944 nelle fabbriche di Torino è la sua condanna definitiva.
Pochi giorni dopo viene arrestato dalla polizia, che lo “cede” alle SS. Il commissario cerca di salvarlo, gli permette di tornare a casa per fare la valigia. Può essere un modo per fuggire, ma Vittorio decide di non sottrarsi. Si consegna ai tedeschi, dopo qualche giorno viene caricato su un treno con destinazione Mauthausen-Gusen. Giunge nel terribile campo di concentramento il 20 marzo e gli viene applicato un triangolo rosso sul petto, il simbolo dei prigionieri politici.
A Mauthausen Staccione ritrova gli ex colleghi Ferdinando Valietti e Carlo Castellani, i tre vengono spesso reclutati dalle guardie per alcune partite di calcio. Uno dei tanti pestaggi subiti gli procura una profonda ferita alla gamba. Non viene curato, viene lasciato solo al suo destino. Muore di lì a pochi giorni, il 16 marzo 1945.
Staccione ha ricevuto molto onorificenze dopo la sua morte. In sua memoria, davanti allo stadio Zini di Cremona, è presente una lapide in marmo. L’ha realizzata l’artista Mario Coppetti, classe 1913: a 11 anni aveva visto giocare Vittorio con la maglia della Cremonese, a 102 ha deciso di rendere omaggio a un idolo della sua gioventù. E riporta questa scritta: “Simbolo dello Sport come impegno civile, sociale e politico, giocò da protagonista nei campi della vita per la libertà e la fratellanza degli uomini”.