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Dieci x Dieci – Mariani: “Il coraggio di Radice. E quel ’10’ viola…”

Nuova puntata della nostra rubrica “Dieci x Dieci“, dedicata ai protagonisti del calcio italiano. Parola a Pietro “Pedro” Mariani, longevo camaleonte del pallone nostrano. Nato a Rieti nel 1962, ha avuto diverse vite come atleta dopo un inizio tanto promettente quanto sfortunato. Ma alla fine è riuscito ad ottenere il premio più importante, ovvero diventare un beniamino nelle piazze in cui ha giocato e a rimanere tale ancora oggi: la sua intervista esclusiva per MondoSportivo.

Il primo ricordo legato al gioco del calcio.

I ricordi tornano alla mia primissima infanzia, a Rieti, precisamente a Cantalice dove ho iniziato a calcare i primi campi. Che in fondo rappresentavano anche la strada, il piazzale della chiesa, sempre con il pallone attaccato a me. Dormivo insieme a questo mio amico, che pretesi – fino a piangere – anche per la foto all’asilo“.

L’idolo calcistico della tua infanzia.

Il mio punto di riferimento, anche quando giocavo con le figurine, è sempre stato Francesco ‘Ciccio’ Graziani. Un giocatore al quale mi sono ispirato. Poi il destino ha voluto che passassi alle giovanili del Torino e infine alla prima squadra granata. Quando lo ebbi vicino e addirittura ebbi l’onore di giocare in attacco accanto a lui, fu la realizzazione di un sogno. Ci sentiamo spesso tuttora e posso confermare che Ciccio sia rimasto il mio idolo, anche oltre il calcio. Un personaggio unico, dalle grandissime qualità umane che oggi sono diventate – ahimé – merce rara in questo ambiente“.

La persona che consideri maggiormente importante per la tua carriera.

Diversi allenatori hanno avuto la loro importanza nel mio percorso. Ma il coraggio che ha avuto Gigi Radice di puntare su di me ad appena 17 anni, nel periodo in cui c’era ancora la mitica coppia Pulici-Graziani, dice tutto. Ero un astro nascente, però non era certo scontato darmi spazio. Radice è colui che ha segnato maggiormente la mia carriera. La stima nei confronti di Gigi è rafforzata dal fatto che abbia aperto la strada a molti suoi colleghi, da precursore del calcio moderno e gli deve essere riconosciuto“.

Il momento più bello.

L’esordio in Serie A a Cagliari. In quel momento ero già nell’orbita della prima squadra, ma fui portato in quella trasferta a causa di qualche defezione e come premio per le buone cose mostrate nella Primavera. Mi ricordo tutto molto bene: la sera prima in albergo, Radice venne in stanza da me e Pileggi. A Danilo disse che avrebbe giocato, nel frattempo attendevo di essere destinato alla tribuna. Invece… ‘Giocherai titolare con la maglia numero 7“. Non dormii tutta la notte, più di dieci volte in bagno. Il debutto al Sant’Elia, davanti a tantissima gente, fu bellissimo proprio perché inaspettato. Appena qualche giorno dopo esordii anche in Coppa UEFA. Insomma… quei giorni di settembre 1979 li ricordo come i più belli in assoluto, anche se in seguito avrei vissuto altri momenti emozionanti“.

Quello che invece vorresti dimenticare.

Credo che nella vita sportiva di un atleta, se non si tratta di cose gravissime, anche gli eventi negativi aiutano a creare una scorza. Ti formano maggiormente il carattere. Però ho avuto tre gravi infortuni in fila: frattura di tibia e perone, ginocchio, tendine d’Achille. Mi hanno fatto provare come una specie di accanimento nei miei confronti da parte della malasorte. C’è stato un momento in cui ho pensato che non avrei potuto continuare, nonostante la tempra di lottatore. Poi invece, grazie alla medicina, alla fortuna e alla mia forza di volontà, sono riuscito a tornare“.

Un bivio importante: azzeccato o mancato.

Avvenne a Brescia, quando decisi di lasciare il Torino. C’era Riccardo Sogliano direttore sportivo e Franco Varrella allenatore. Mi proposero, per le mie caratteristiche legate a velocità e grinta, di diventare difensore. Nella fattispecie, uno ‘alla Cafu’, tanto per capirci. Un esterno di fascia destra nella difesa a zona. Inizialmente fu uno shock, trascorsi tutto il precampionato a provare i movimenti giusti. Nonostante i miei dubbi iniziali andò benissimo e devo dire che, a conti fatti, quell’intuizione mi ha allungato la carriera“.

Il tuo 11 ideale, tra i compagni con cui hai giocato.

Scelgo: Bordon, Villa, Cabrini, Júnior, Danova, Zaccarelli, Beccalossi, Pecci, Graziani, Dossena, Altobelli. Compito complicato, perché ho giocato insieme ad altri campioni incredibili come il brasiliano Branco e l’argentino Hernández, ad esempio“.

L’allenatore che porti nel cuore.

Ho avuto tanti allenatori, da Giacomini a Bersellini, fino a Ventura. Però ribadisco la figura predominante di Gigi Radice, tanto dal punto di vista umano che puramente calcistico. Opinione suffragata dagli elementi di cui sono stato testimone sul campo“.

L’avversario più ammirato.

Giancarlo Antognoni. In quegli anni, dove quasi tutti i centrocampisti erano non bellissimi come stile ed eleganza, lui spiccava come aveva fatto Gianni Rivera in precedenza. Quando capitava di giocare contro Antognoni, che io fossi in campo o in panchina a osservare, non gli toglievo gli occhi di dosso. Ammirato. Con il numero 10 della Fiorentina ho avuto modo di instaurare una bella amicizia, perché lo consigliai quando ebbe quella brutta frattura alla gamba nel 1984. Io avevo già avuto un’esperienza simile e lo indirizzai presso il chirurgo che mi aveva operato. Riuscì a guarire. Da allora ci sentiamo e coltiviamo il nostro rapporto“.

Il bilancio della tua carriera.

Più che positivo. Ogni tanto ci penso: però posso dire di aver giocato nell’epoca più bella e insieme più difficile. C’erano pochi stranieri e il panorama nostrano era ricchissimo. Aver fatto una carriera così lunga, restando fuori da certe tentazioni anche grazie ai valori trasmessi dalla mia famiglia, è un motivo di grande orgoglio per me. Mi reputo molto fortunato, anche per quello che quei campioni che ho citato prima mi hanno trasmesso. Era un calcio più sano, con più poesia e meno contaminato dal business. In cui si poteva ancora imparare il rispetto per la società, la maglia e ciò che ti circondava“.