Il signor Rossi e gli anni 80: il calcio italiano in Paradiso
Paolo Rossi, il calcio e gli anni’80: tre elementi uniti indissolubilmente. Perché il giocatore, del quale oggi piangiamo la scomparsa, non fu solamente uno dei fuoriclasse della propria generazione, ma una vera e propria icona di un periodo emblematico, per il calcio, e non solo.
Gli anni ’80 calcistici iniziarono, come ricordiamo, con lo scandalo del calcio scommesse, un tornado che spazzò via dal calcio di vertice squadre come Milan e Lazio (coi rossoneri mai retrocessi tra i cadetti sino a quel momento), e andò anche a toccare diversi campioni dell’epoca. Alcuni a fine carriera, come Albertosi (che venne radiato), e altri all’inizio di una parabola ascendente come, appunto, Paolo Rossi. L’ex centravanti del Perugia di GiBì Fabbri, accusato dalla giustizia sportiva di aver concordato il pareggio nell’incontro tra l’Avellino e il Perugia, giocato il 30 dicembre 1979 e finito effettivamente 2-2, venne condannato a tre anni di squalifica, ridotti a due nell’appello.
Rossi era l’astro nascente del calcio italiano. Non aveva la potenza di Bonimba, non era completo come lo potevano essere stati quelli della generazione prima della sua (Riva, Prati, Anastasi per fare dei nomi), ma era l’espressione più limpida del calcio italiano come viene concepito soprattutto all’estero: difesa e contropiede. Pablito era un rapace dei 16 metri, un centravanti letale al limite dell’area piccola. Rossi era capace di vedere spazi dove gli altri si erano ormai persi; aveva un senso della posizione incredibile, una rapidità di esecuzione e un’imprevedibilità che appartenevano solo a lui.
Abbiamo sempre pensato che non si chiamasse Rossi per caso. In fondo, è il cognome più diffuso in Italia, quello che viene utilizzato all’estero per identificare i connazionali: quando si scrive il signor Rossi, su un giornale straniero, si vuole identificare l’italiano medio, non necessariamente in negativo. E Paolo Rossi, come scrivevamo sopra, ha incarnato il calcio italiano come viene definito oltre confine: difesa arcigna, contropiede, e capacità di concretizzare anche le piccole opportunità, l’errore individuale del difensore, magari l’unico di tutta la partita.
Le sconfitte forse più dolorose, ma l’essenza del calcio: forse l’unico sport che non premia sempre il più forte fisicamente e dal punto di vista della somma della tecnica individuale, dando spazio anche alla tattica e al gioco di squadra. Una vera e propria metafora della vita, e che è la formula che, probabilmente, ne ha decretato il successo planetario. Pablito, per noi ragazzi degli anni ’80, resta una pietra miliare. La delusione che ci diede nel caso delle scommesse fu ampiamente ricompensata dalla gioia di quel mondiale in Spagna, due anni più tardi, che resta irripetibile. Vero, come ci farà notare qualcuno, che, nel 2006, la situazione era in fondo molto simile, dal punto di vista calcistico.
Ma era l’Italia a non essere la stessa. Nel bene e ne male, gli anni ’80 furono un passaggio particolarissimo per la storia non solo del nostro Paese, ma del mondo intero. I primi anni del decennio, in particolare, furono caratterizzati da tensioni internazionali oggi inimmaginabili, e il reddito familiare nel Belpaese era decisamente più basso. Non solo: il calcio italiano, soprattutto a livello di club, non stava passando momenti felici. La Nazionale, al contrario, aveva fatto bene in Argentina, ma le era mancato il salto di qualità decisivo, e veniva da un Europeo casalingo deludente, giocato con ancora le immagini degli arresti dei giocatori negli stadi impresse nella mente di tutti. Pochi, forse nessuno, la davano tra le favorite alla vittoria finale.
Come andarono le cose, lo sappiamo. Fu non solo la vittoria degli Azzurri, ma di una filosofia calcistica controversa, detestata addirittura da tanti commentatori oltre confine ma non solo, ed esaltata invece da alcuni monumenti del giornalismo sportivo come Gianni Brera, che la considerava la risposta italica alle ataviche “mancanze” fisiche e atletiche degli atleti azzurri, in un’epoca dove gli stranieri erano appena tornati a calpestare i campi della Penisola. Più avanti sarebbero arrivate altre vittorie, soprattutto a livello di club, ottenute anche in altro modo, con un calcio basato sul pressing e sul gioco d’attacco: ma il dibattito sul gioco all’italiana resta uno tra i più vivi della storia del giornalismo sportivo. E non saremo certo noi a esaurirlo con queste righe.
Di Paolo Rossi abbiamo tanti ricordi personali, legati ovviamente non solo a quel Mondiale magico. Passò anche da Milano: fu l’unico grande attaccante fino a quel momento avversario a vestire la maglia rossonera, nella stagione 1985/86. Ma era un giocatore ormai fisicamente in declino, nonostante l’ancora giovane età. Restano però nel cuore di tutti i tifosi rossoneri quei 2 gol nel derby d’esordio, gli unici con la maglia del Milan, segnati proprio alla Pablito: con un inserimento per vie centrali il primo, e sfruttando un pallone vagante al limite dell’area piccola il secondo, decisivo per il pareggio. Possiamo dire che c’eravamo, e resta uno dei ricordi più belli di tanti anni passati sugli spalti. L’anno dopo l’ex centravanti del Mundial venne inserito nell’affare che porto Galderisi al Diavolo, e volò a Verona, dove concluse la carriera.
Con Paolo Rossi se ne va uno dei protagonisti del Mundial spagnolo, e non solo. Il centravanti toscano resta una figura iconica, incarnando infatti da una parte il passaggio a un calcio di altro livello (emblematico fu il caso degli sponsor quand’era a Perugia, che sancì di fatto lo sdoganamento di un nuovo modo di fare pubblicità negli stadi), e dall’altra la vittoria più importante del calcio all’italiana tradizionale. Non era facile essere protagonista di due capitoli così in antitesi, e così importanti per il nostro calcio. Ciao, Pablito.