In famiglia, ogni tanto, la storia di come sia stato scelto il mio nome esce fuori, quasi come fosse un gioco. Mio padre lo dice sempre, scherzando: “Ah, io volevo chiamarti Diego Armando, come Maradona”. Per lui, nato vicino a Napoli e per tutta la vita tifoso appassionato degli Azzurri, doveva essere un omaggio a quello che, usando un nostalgico passato, è stato il più grande calciatore di tutti i tempi, almeno ai suoi occhi. E, indirettamente, anche ai miei. Poi, sembra che alla radio sia partito “Buonanotte Fiorellino” di De Gregori e, alla fine, la scelta di come mi dovessi chiamare è virata su altro. Così vuole la “leggenda” e a questo io ho continuato a credere per tutta la vita.
Appartengo alla generazione di chi Maradona non l’ha mai visto giocare in diretta o allo stadio, se non nelle tristi amichevoli di beneficenza tra vecchie glorie, cantanti o piloti di Formula 1. Ho visto con piena coscienza solo il Pibe de Oro affaticato dagli anni e da una vita folle, l’ex campione nella versione da allenatore dell’Argentina o di squadre improbabili da ogni parte del mondo e, in ultimo, delle scenografiche reazioni in tribuna da spettatore, diventate a volte dei “meme”. Per fortuna, ci sono stati i filmati e le videocassette delle partite del Napoli di 30 anni fa a farmi capire da dove arrivasse l’amore del popolo partenopeo per il suo ultimo Diez. E, di conseguenza, di mio padre.
Mi sono reso conto che Maradona facesse giocate che sembravano di un altro pianeta. È vero, si dirà che era un altro calcio, ma quello che faceva quel fenomeno con la dieci dietro la schiena non l’ho mai più rivisto. “Guarda, sembra che abbia una calamita ai piedi!”, mi faceva osservare mio padre quando partiva palla al piede, ci giocava, faceva partire i suoi tiri all’incrocio. Era un qualcosa di irrazionale, geniale. Non puoi non innamorarti di Maradona quando lo vedi giocare, danzare con il pallone in pieno riscaldamento, con gli scarpini slacciati, sulle note di “Live is Life” degli Opus a pochi minuti da una gara fondamentale per il Napoli, contro il Bayern Monaco, nella semifinale di Coppa UEFA. Un’espressione di leggerezza, libertà, tranquillità sportiva mai più viste su un campo da calcio.
Così come irrazionale mi sembrava la storia che lo aveva legato alla città, oltre che alla squadra, di Napoli. Un amore profondo, come se fossero due anime destinate a incontrarsi, che il destino ha voluto combaciassero perfettamente. Una leggenda in campo diventata patrono di una città, per intere generazioni, creando un mito fatto di storie, sfumature, aneddoti. Un amore nato con un abbraccio di 80mila tifosi accorsi allo stadio per vederlo palleggiare e trascinatosi avanti negli anni, con la stessa intensità, anche quando la realtà aveva finito per sporcarne la storia.
Quando si vede un giocatore fare qualcosa di straordinario, il commento ancora oggi è lo stesso: “Ma chi è, Maradona?!”. Ci si scherza su, sapendo che quell’eredità non avrebbe potuto più raccoglierla nessuno. Si era già consapevole che quel mix di talento, amore, vicende dentro e fuori dal campo non si sarebbe più proposto, nonostante il passare di tanti, ottimi giocatori. Messi è stato quello più volte associato a quel nome, anche con paragoni tra un filmato e l’altro. Però, mio padre non l’ho mai visto troppo convinto. E quando il 10 del Barcellona è in giornata no, commenta con un forse irrazionale: “Sì, ma Maradona mica spariva così dalle parite”. E io, che il Pibe de Oro l’ho visto solo in cassetta, mi accontento di credergli.
Oggi so che, con la morte di Maradona, sparisce un pezzo di vita di mio padre. Si sapeva che un giorno sarebbe successo, ma quando accade non sei mai pronto. Quella foto di Whatsapp con il numero 10 resta lì per lui, ferma nella sua eternità. Un posto speciale che lascia Maradona in un immaginario collettivo finito per inserirsi in modo inconscio nel nostro modo di pensare e immaginare il calcio. Persino di chi, come me, non ha avuto l’onore di vederlo giocare in prima persona.