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Nadia Nadim, un esempio per il calcio femminile (e non solo)

Facebook @Nadia Nadim

Nel primo dei due scontri tra Italia e Danimarca, decisivi per il primo posto nel Gruppo B per la qualificazione agli Europei Femminili di calcio del 2022 in Inghilterra, una stella ha brillato in assoluto nella gara, quella di Nadia Nadim, una giovane donna afgana naturalizzata danese che è diventata calciatrice per scappare agli orrori della guerra e che ci ha puniti con una doppietta. L’aver acceso i riflettori su di lei ci permette di parlare della sua eccezionale vita e di come lo sport possa essere un’ancora di salvezza.

Nata ad Herat e cresciuta a Kabul, capitale dell’Afghanistan, Nadia nel 2000 ha dovuto abbandonare il suo paese insieme alla sua famiglia dopo che il padre Rabani, generale dell’Esercito nazionale afgano, fu sequestrato e giustiziato nel deserto dai talebani. Insieme alla madre Hamida e alle sue quattro sorelle, dopo essere passata per Pakistan e Italia grazie a dei passaporti falsi, Nadim è giunta in Danimarca, nazione in cui si è stabilita.

La Nadim aveva scoperto il calcio durante il suo lungo viaggio verso la salvezza, giocando contro i coetanei maschi, e lì si era innamorata del pallone: in terra danese mostra subito di che pasta è fatta, venendo ingaggiata appena 16enne dal B52 Aalborg per poi finire nel 2012, dopo la militanza in Team Viborg  e IK Skovbakken, al Fortuna Hjørring, una delle due squadre più titolate della Danimarca.

Qui la giovane 24enne sfrutta benissimo la sua prima grande chiamata, debuttando nella Women’s Champions League con una doppietta contro le campionesse di Scozia del Glasgow City e vincendo la Eliteserien nella stagione 2013-2014: questo desta le attenzioni degli americani dello Sky Blue prima e dei Portland Thorns FC poi che l’hanno voluta in prestito per la National Women’s Soccer League per quattro anni di fila. Dopo una stagione e mezza tra le file del Manchester City, ora si è accasata al Paris Saint-Germain, dove ha segnato ben 13 reti e fornito 13 assist in 16 gare ufficiali tra campionato e coppa.

La storia tra Nadim e la nazionale danese è invece più particolare: dopo aver preso la cittadinanza danese, Nadia non ha potuto subito entrare a far parte della De rød-hvide a causa di un blocco imposto dalla FIFA che richiedeva almeno cinque anni di residenza dopo i 18 anni. La federazione danese però, avendo capito che giocatrice era Nadia, si appellò a questa norma portando il dipartimento legale della FIFA a fare un’eccezione per lei, consentendole di vestire la maglia della nazionale anzitempo. Lì Nadia è stata subito decisiva grazie al suo stile di gioco energico e determinato e alla sua freddezza in zona d’attacco, freddezza che l’ha portata a diventare la rigorista della squadra.

La Nadim, al di là delle sue doti calcistiche, ha dimostrato di essere però una persona eccezionale anche fuori dal campo: oltre a parlare ben undici lingue (danese, inglese, spagnolo, francese, tedesco, persiano, dari, urdu, hindi, arabo e latino) ha studiato medicina alla Aarhus University con lo scopo di diventare un chirurgo una volta finita la carriera sportiva e nel 2018 la rivista Forbes l’ha citata tra le 20 donne più potenti nello sport. Inoltre, per il suo ruolo nella promozione dell’uguaglianza tra i sessi nello sport e nell’educazione, è stata nominata nel 2019 UNESCO Champion for Girls and Women’s Education. Nadim è anche una delle calciatrici più pagate nel calcio femminile, ma ha rifiutato molte offerte che l’avrebbero resa la calciatrice più pagata al mondo, spiegando come lei non giochi per i soldi.

La storia di Nadia Nadim è una storia di speranza, di dolore e di opportunità che merita di essere raccontata. E in tempi come quelli attuali abbiamo davvero bisogno di storie come questa per non arrenderci e continuare a lottare, come ha detto lei stessa in una recente intervista al quotidiano inglese The Guardian: “In questo momento puoi lamentarti di essere a casa e pensare: “La mia vita fa schifo.” Ma puoi anche essere grato di vivere in una società in cui puoi stare a casa e avere ancora cibo e un tetto sulla testa”.