Nuova puntata della nostra rubrica Dieci x Dieci, alla ricerca dei protagonisti storici della Serie A. Questa settimana è il turno di Walter Bianchi, rincalzo dei campioni del grande Milan di Arrigo Sacchi, l’uomo che gli ha cambiato vita e carriera. E quel maledetto conto aperto con la malasorte, con cui ha sempre combattuto a testa alta.
Walter Bianchi è nato ad Aarau (Svizzera) il 7 novembre 1963. Terzino sinistro dotato di buone qualità tecniche e dinamiche, fu valorizzato nel Parma da Arrigo Sacchi. Il tecnico di Fusignano si è rivelato il personaggio chiave per la carriera di Bianchi, che da lì lo portò anche al Milan di Berlusconi nel 1987. Chiuso irrimediabilmente da un certo Paolo Maldini, partecipò con appena 3 presenze all’unico scudetto del suo maestro. Vessato da guai fisici nell’arco di tutta la sua parabola agonistica, rischiò di morire nel 1992 quando il pullman del Verona ebbe un incidente stradale. Anni intrisi di soddisfazioni, però avvelenati da troppa sofferenza. Oggi Walter Bianchi vive in un piccolo paese, Cantiano, a cavallo tra Marche e Umbria.
Cosa ricordi con più piacere dei tuoi primi anni in Svizzera e come è nata la passione per il calcio?
“Sono sì nato ad Aarau, ma ho vissuto lì solo nei primi 4 anni di vita. Poi, essendo figlio di immigrati italiani, sono arrivato in Italia e ho vissuto la mia infanzia a Miramare di Rimini. Della Svizzera non ho ricordi particolari… ero troppo piccolo. Giocavo per strada a differenza dei ragazzi di oggi, che devono pagare se vogliono avere degli spazi per sprigionare energie positive. Io e i miei coetanei, avendo più libertà e spazi,
incominciavamo dopo pranzo e giocavamo fino a sera nei campetti sconnessi o sulla strada con 4 sassi che fungevano da porte! Poi a 10 anni sono diventato tesserato (dietro pressione di amici degli amici) del Miramare Calcio e lì ho cominciato a rispettare tutti i regolamenti e i comportamenti giusti per giocare“.
In quale ruolo hai iniziato a giocare nel Miramare, difensore come poi saresti stato da professionista?
“No. Ero un’ ala sinistra, poi mezzala sinistra e quando fui acquistato dal settore giovanile del Cesena (a 30 km da Rimini) il mio nuovo allenatore Firmino Pederiva sfruttò la mia velocità: ispirato dal ruolo di terzino fluidificante, che era allora di fatto un’innovazione, trovai la mia collocazione definitiva“.
Eccoci all’incontro con un certo Arrigo Sacchi. Ti colpì in fretta la sua personalità?
“Sì. Quando ebbi la fortuna di conoscerlo a Cesena io rimasi subito colpito dalla sua chiarezza. Trasmetteva la sua voglia e la sua passione, i suoi concetti erano per me semplici e chiari. Quando tornai a casa confidai a mio fratello Massimo di aver conosciuto un allenatore che sarebbe arrivato sicuramente in serie A! Ma Sacchi andò oltre le mie più rosee previsioni, non solo arrivò in Serie A, ma vinse tutto e poi diventò tecnico della Nazionale. Non vinse il Mondiale contro il Brasile per un calcio di rigore. Ma per me Sacchi è il numero uno in assoluto! Posso inquadrarlo con queste tre definizioni: intelligentemente appassionato, innamorato della sua passione, generoso verso chi condivide la sua passione“.
Sono aggettivi molto carini e mettono in luce delle sfaccettature diverse dal Sacchi forse più conosciuto: un vero innovatore, descritto a volte come ossessivo applicatore degli schemi e delle sue idee, no?
“Guarda… Sacchi ha dovuto sempre lottare contro un’arretratezza che vige tuttora in un ambiente molto conservativo e poco avvezzo all’aggiornamento. Determinati suoi concetti che trent’anni fa erano fantascientifici sono attuabili ancora oggi e percorribili non solo in Italia, ma anche in ambito internazionale. Ancora oggi leggo o sento che tutti sarebbero stati capaci d’incantare il mondo con quella squadra al Milan (riconosciuta, ultimamente, da una giuria internazionale come squadra di club che ha espresso il miglior calcio di sempre). Ma in realtà solo grazie a quegli aggettivi (intelligenza, passione, generosità) che Sacchi ha saputo far diventare discreti giocatori buoni giocatori, buoni giocatori ottimi giocatori, ottimi giocatori autentici fuoriclasse!“.
Nella stagione 1981-82 arrivasti vicino all’esordio in A con il Cesena. Ma fu in seguito, grazie a Sacchi nel Rimini in C1 (con l’intervallo di Brescia) che conoscesti la maglia da titolare e cominciasti a farti notare. Mi parli del tuo periodo a Rimini?
“Prima esperienza nei professionisti. Facevo il servizio militare: arrivavo, giocavo e rientravo in caserma. La mia conoscenza del gioco che Sacchi chiedeva, era per me già stata acquisita nei tre anni di Primavera dove eravamo diventati campioni d’Italia per la prima e unica volta nella storia dell’ottimo settore giovanile del
Cesena. Per me giocare in C era l’inizio di una non felice carriera, ma ugualmente ricca di esperienze e soddisfazioni“.
Raccontami del periodo a Parma, che credo per te sia stato il più positivo.
“A Parma sono stati due anni molto formativi, la società veniva da una traumatica retrocessione in C1 ed era molto indebitata. Il Direttore Sportivo era Riccardo Sogliano, molto bravo e capace: riuscì – collaborando ovviamente con il Mister – a prendere i giocatori giovani che erano funzionali al gioco che Sacchi
prediligeva. E dopo aver vinto il campionato in C1 con pochi ritocchi riuscimmo ad entusiasmare anche l’anno successivo in Serie B. Sfiorammo la promozione in A e ci mettemmo in evidenza in Coppa Italia vincendo per due volte a San Siro contro il Milan. Fu in quelle occasioni che Berlusconi si convinse della
bontà e dell’importanza delle idee del tecnico di Fusignano, decidendo di ingaggiarlo per la stagione successiva: diede così vita al Milan stellare che ha incantato il mondo. Sulle due favolose stagioni a Parma, aggiungo che con quel gruppo di giovani riuscimmo a sanare i debiti e parecchi di questi approdarono in
Serie A. Voglio ricordare su tutti il nostro capitano Roberto Bruno e Gianluca Signorini, ragazzi che non sono più con noi ma sempre vivi nei nostri cuori“.
In cuor tuo speravi che Sacchi ti avrebbe portato con se anche a Milano?
“Io ero e sono rimasto una persona sempre pronto ad eseguire ciò che mi si richiede. Sapevo che, come altri miei compagni, avevo delle richieste… non pensavo al Milan perché il reparto difensivo era forte e giovane. Ma Arrigo Sacchi probabilmente aveva anche grande riconoscenza e nel giro di qualche anno ha portato al Milan tutti quelli che potevano aiutarlo a completare una grande opera: Bianchi, Mussi, Bortolazzi,
Agostini, Sebastiano Rossi, Pincolini, Carmignani. Sono felice di aver fatto parte di quella magnifica favola. Con alcuni protagonisti di quella bellissima storia sono tuttora in contatto. Con Evani e Mussi, ad esempio. Poi mi sento spesso con Mario Bortolazzi, con Vincenzo Pincolini e naturalmente con Arrigo Sacchi“.
Quali furono i motivi, se puoi dirmelo, del tuo addio al Milan?
“Beh, nonostante i risultati della squadra fossero stati ottimi e considerando due gravi infortuni (operazione all’adduttore e al tendine rotuleo), divenne importante per me ritornare a giocare con continuità e costanza per ritrovare condizione e ritmo gara. Il Torino (società gloriosa) mi richiese in prestito ed io accettai
volentieri, perché insieme a Roberto Mussi avremmo ricomposto la coppia dei terzini volanti esplosa nel Parma! Al Toro poi conquistai la promozione in A. Una bella soddisfazione, la squadra era veramente super. Ricordo la vittoria del campionato di Serie B con un mese di anticipo e anche lì, durante l’anno, riuscii ad andare sotto i ferri per una micro frattura alla tibia. Comunque una bella soddisfazione… il mio primo
campionato vinto in B“.
Arriviamo a Verona e all’incidente.
“A Verona ho disputato 3 campionati. Nel primo anno con Eugenio Fascetti (che mi aveva richiesto dopo la vittoria del campionato a Torino) vinsi di nuovo il campionato cadetto. Ma dopo altri due interventi chirurgici, a fine campionato decisi di smettere con il calcio per via di un’infezione ossea (ostiomielite). Poi il Milan mi offrì un’altra opportunità e dopo una preparazione differenziata ed alcuni allenamenti con Capello venni ingaggiato a novembre dal Cosenza in B. Con Edy Reja disputai un buon campionato (sfiorammo la promozione) e decise di portarmi con sé a Verona nel ’92: fui dispiaciuto di lasciare Cosenza dove mi ero riabilitato con il calcio. Ero ugualmente felice di riavvicinare la mia famiglia. Ma dopo pochi giorni di preparazione, mi risvegliai in un letto d’ospedale con un forte dolore al braccio e tanta confusione dentro al cervello: ero appena risorto dal coma dopo l’incidente stradale in cui venne investito il pulmino della squadra (guidava l’incolpevole Pierino Fanna): chi poteva subire i maggiori danni se non io? Comunque, anche dopo quel terribile incidente sono riuscito a disputare 14 gare nel girone di ritorno ed arrivare alla conclusione della mia carriera, perché nell’ultimo anno a Verona in Serie B alla corte di Mutti non venni ritenuto indispensabile, in quanto considerato ‘vecchio’. Rimasi senza stimoli, ma mettendoci sempre il massimo impegno negli allenamenti. Così decisi, da giocatore sano, di terminare la mia carriera costellata da tanti infortuni ma anche con grandi soddisfazioni personali“.
Il Walter Bianchi non più calciatore di cosa si è occupato?
“Ho provato a fare l’allenatore. Ho vinto il campionato di 2ª Categoria e quello di 1ª Categoria, anche con gli allievi sperimentali e regionali del Gubbio, poi sono stato selezionatore della rappresentativa di Serie D e ho vinto il torneo dei gironi a Viareggio. Ho fatto l’assistente tecnico per le nazionali giovanili per 4 anni con le Under 20, 16, 19, 15 e 18. Venni sollevato da incarichi tecnici e mi venne offerto il ruolo di osservatore per l’Under 21, incarico che dovetti rifiutare per motivi familiari“.
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Andreas Brehme (27.08.2020)
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