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DIECI x DIECI – Sabadini: “I fatti del Mondiale ’74 sono un incubo ancora oggi”

Seconda puntata della nostra nuova rubrica, dedicata alle testimonianze dei protagonisti storici della Serie A. Oggi è il turno di un campione del Milan e della Nazionale degli anni Settanta, Giuseppe “Tato” Sabadini: il terzino classe 1949, a lungo protagonista con la casacca del Milan, rievoca la sua parabola sportiva per MondoSportivo.

Giuseppe Sabadini, detto “Tato”, è nato a Sagrado (già provincia di Gorizia, soppressa nel 2017) il 26 marzo 1949. Inizia come attaccante, prima di essere trasformato in terzino grazie a un’intuizione di Fulvio Bernardini. Viene lanciato dalla Sampdoria, a 22 anni acquistato dal Milan. In rossonero conquista tre volte la Coppa Italia e una Coppa delle Coppe, senza riuscire ad agguantare lo scudetto. Difficile il rapporto con la maglia della Nazionale, confinato ad appena 4 presenze e un Mondiale vissuto da spettatore. Poi l’amaro addio alla sua squadra del cuore, il trasferimento a Catanzaro (dove vive tuttora) prima della chiusura a Catania e Ascoli: con quasi 400 presenze in Serie A e un notevole bagaglio di gioie e dolori, ricordi e qualche rimpianto.

Il tuo primo ricordo legato al gioco del calcio.

Sono nato con il pallone tra i piedi. Mio padre me ne regalò uno di cuoio, di quelli che si legavano e facevano male se li colpivi di testa! All’inizio ho praticato pure l’atletica, nello sprint sui 100 e 200 metri piani, grazie alla mia velocità. Il Milan, però, è stato presente da subito nella mia vita come squadra del cuore. A 15 anni feci un provino con l’Inter. Mi presero! Accadde che il talent scout che mi aveva accompagnato giocò male le proprie carte con la società, dopo avermi pagato di tasca sua. Dovetti lasciare il ritiro di Rogoredo e tornare al mio paese, piuttosto sfiduciato. Giovanni Invernizzi, allenatore delle giovanili nerazzurre, mi confidò anni dopo di esserci rimasto male allora perché avrebbe desiderato allenarmi anche in prima squadra. Lui in seguito avrebbe vinto uno scudetto sulla panchina dell’Inter. Fortunatamente, dopo un paio di mesi, lo stesso intermediario mi portò alla Sampdoria: fu così che iniziò tutto“.

L’idolo calcistico della tua infanzia.

Quando sono diventato un po’ più grandicello, il mio idolo lo identificavo in Gianni Rivera. Il mio sogno era quello di riuscire, un giorno, a giocare con lui. Sono riuscito ad avverarlo. Ma era un periodo di grandi campioni… Mia sorella, ad esempio, andava matta per Sivori! Proprio la Juventus fu vicina ad acquistarmi. Aveva già ingaggiato dalla Sampdoria Morini e Vieri, all’epoca giocavo anche nell’Italia Under 21 e diversi miei compagni in azzurro vennero portati in bianconero. Dopo un bel campionato a Genova sentivo fermento intorno a me, ero preoccupato per il mio futuro. Fu così che andai a parlare con Boniperti, tramite Castano. All’epoca non c’erano i procuratori. Mi disse: ‘Noi abbiamo fatto un’offerta alla Samp (Salvadore, Roveta e Leonardi più 150 milioni di lire, ndr), ma il presidente Colantuoni tentenna’ e fece una controproposta chiedendo Bettega e 220 milioni per il mio cartellino. La Juve non volle cedere Bettega e Boniperti mi promise che ci saremmo aggiornati dopo un anno. Nel frattempo, però, Nereo Rocco mi aveva già messo gli occhi addosso“.

La persona che consideri maggiormente importante per la tua carriera.

Fulvio Bernardini. E ancora prima di lui Adriano Bassetto, che dagli allievi mi portò direttamente alla De Martino dove giocavano le riserve della prima squadra. Capitava di scontrarsi con gente del calibro di Agroppi, Nicolè, Cereser, Lojacono… Ero un ragazzino e mi davano certe legnate! Bernardini, da punta (pure prolifica), mi arretrò a terzino per sfruttare maggiormente la mia progressione e preservarmi dalle attenzioni eccessive degli avversari. Mi insegnò tantissime cose e fu fondamentale per la mia crescita, facendomi entrare in prima squadra senza farmi più uscire“.

Il momento più bello.

Coincide con il 1973. Quell’anno vissi il miglior periodo della mia carriera, vincendo la Coppa delle Coppe e raggiungendo la Nazionale maggiore: mi sentivo un razzo in quel momento! Anche se il 1973 è stato pure l’anno dello scudetto perso a Verona: eppure la giornata non si era presentata in modo proibitivo… Il presidente veronese Garonzi venne a congratularsi con noi prima della gara per il tricolore imminente, portando dei vassoi di paste e pure qualche bottiglia. Ci rassicurò, in un certo senso, tutto sarebbe andato nel modo giusto per noi. Il Verona non aveva più nulla da chiedere a quel campionato. Poi, sul campo sappiamo tutti com’è andata. Vero, forse siamo scesi in campo già convinti di aver vinto e come se fosse una partita d’allenamento. Quella fu una nostra mancanza, anche se venivamo dalla battaglia di Salonicco nella finale di Coppa delle Coppe contro il Leeds“.

Quello che invece vorresti dimenticare.

Senza alcun dubbio, proprio quella partita di Verona che ci costò lo scudetto nel 1973. Una ferita aperta ancora oggi. Nonostante avessimo subito un sacco di torti arbitrali in precedenza – vedi Lazio e Juventus – non abbiamo fatto del nostro meglio quel giorno. Perché se avessimo giocato come eravamo abituati a fare, non avremmo mai perso per 5-3 quell’incontro che ci costò il campionato. Una grande delusione. Così come quella che provai quando, tanti anni dopo la Coppa del Mondo 1974, incontrai di nuovo Ferruccio Valcareggi a Coverciano: ‘Al Mondiale, per me, avresti dovuto giocare tu. Ma mi legarono le mani‘. Una sensazione amara, fastidiosa, che resta attaccata addosso. Sono situazioni ed ingiustizie che uno si porta dentro. A me hanno tolto il sonno per parecchio tempo e, nonostante siano passati tanti anni, mi provocano ancora degli incubi. Ogni volta sogno di dover entrare in campo, con la maglia della Nazionale sulla pelle, ma c’è sempre qualcosa che me lo impedisce“.

Un bivio importante: azzeccato o mancato.

Può darsi che, se avessi accettato di andare alla Juventus e non al Milan, ora potrei contare tanti scudetti nella mia bacheca! Magari avrei disputato due Mondiali… col senno di poi ovviamente è più semplice fare questo tipo di pensieri. Un appuntamento mancato, purtroppo, è stato quello con la Nazionale. Ho disputato la miseria di 4 partite, avrei dovuto giocarne molte di più. Tra infortuni, concorrenza e qualche personaggio… Valcareggi mi diceva sempre che avrei giocato io. Anche al Mondiale ’74. Poi, immancabilmente, compariva sempre una persona capace di condizionare le scelte del ct. Era Italo Allodi, il quale premeva affinché giocasse un altro. Meglio se juventino… Per il debutto contro Haiti, avrei dovuto marcare io Sanon. Cambiò tutto all’ultimo e a destra giocò Spinosi. Dopo pochi secondi l’haitiano gli andò via in velocità e infilò Zoff, mettendo fine alla sua lunghissima imbattibilità. Non so se con un difensore veloce come il sottoscritto sarebbe andata nello stesso modo… Per l’incontro decisivo contro la Polonia, stesso copione. Il ct mi dice che, visto che ho già affrontato Gadocha con il Milan, lo marcherò io. Un’altra partita da spettatore, stavolta addirittura in tribuna! Dopo il Mondiale non riuscii più a vestire la maglia azzurra nonostante l’arrivo di Bernardini. Col senno di poi ho pensato che forse il mio antico rifiuto alla Juve aveva penalizzato la mia parabola azzurra. Anche se, dopo il Mondiale ’74, persi la Nazionale in modo assurdo. L’ultimo stage era andato alla grande per me, ricevetti pure i complimenti di Bearzot, Bernardini mi disse che aveva deciso di farmi marcare Cruijff contro l’Olanda. Il Dottore aveva l’abitudine di non convocare chi non aveva giocato l’ultima di campionato. Giagnoni, allenatore del Milan, non guardò in faccia nessuno e mi lasciò fuori nonostante le mie considerazioni e i timori di non essere convocato. Così persi l’azzurro definitivamente. Niente Olanda, niente Cruijff, poi erano già usciti alla ribalta dei giovani terzini molto bravi. Quanti rimpianti… Posso raccontare un aneddoto gustoso. Nella precedente gara contro la Jugoslavia, fui convocato e così anche il compianto Pierino Prati. Tutti andavano tessendo le lodi del velocissimo Francesco Rocca: Prati disse che lui conosceva bene Tato Sabadini e secondo lui ero più veloce di Rocca. Scommessa, chi perde paga la cena. Gara sui 100 metri insieme a Rocca, Damiani e Pulici. Vinsi io nettamente, per la gioia di Pierino!“.

Il tuo 11 ideale, scelto tra i compagni con cui hai giocato.

Albertosi; Sabadini (“Mi ci metto anch’io!“), Facchetti; Cera, Bellugi, Burgnich; Causio, Mazzola, Boninsegna, Rivera, Riva.

L’allenatore che porti nel cuore.

Fulvio Bernardini e Nereo Rocco, che non ti risparmiava qualche calcio nel sedere se era il caso. Ma desidero menzionare anche Carlo Mazzone, una persona perbene“.

L’avversario più ammirato.

Il danese Allan Simonsen. Un fuoriclasse pericolosissimo, rapido e tecnico, che nel 1977 vinse il Pallone d’Oro. Non erano niente male anche il brasiliano Edu, il greco Koudas, il tedesco orientale Sparwasser. In Italia Jair e Amarildo: con quest’ultimo facevamo sempre a botte, perché aveva l’abitudine di sputare. Con lui sono ancora in contatto e in amicizia, tramite il figlio. Senza dimenticarsi di Riva, Bettega, Pulici…”.

Il bilancio della tua carriera.

Un bilancio buono. Considerando soprattutto la mia carriera nel Milan. Non me ne sarei mai andato. Purtroppo, un giorno mi scontrai con il ds Vitali. Mi disse che nel Milan bisognava pagare per giocare. Non gli misi le mani addosso per miracolo. Preferii andare via nonostante il contratto in essere, accettando la corte del Catanzaro. Amo il mare, alla fine dissi di sì pur rinunciando a una importante somma di denaro. Dopo così tanto tempo, sono ancora qui. Mi vogliono bene a Catanzaro“.

 

(Si ringrazia Giuseppe Sabadini, per le immagini gentilmente messe a disposizione)

Già pubblicati: Andreas Brehme (27.08.2020)