Home » The Ibra Supremacy

Foto: Twitter @AcMilan

Benjamin Button diceva che “non è mai troppo tardi per essere quello che decidi di essere, non c’è limite di tempo: comincia quando vuoi” e così si sente anche Zlatan Ibrahimović, eterno vecchio ragazzino che ha ridato le fiamme ad un Diavolo spelacchiato. Parlando di sé, sempre con estrema roboanza dopo la doppietta alla Sampdoria, Zlatan ha fatto riferimento proprio al film: “Dicono che sono vecchio, invece mi sto riscaldando… come Benjamin Button, nato vecchio, però sono stato sempre giovane, mai vecchio!”. A 38 anni, 9 mesi e 29 giorni, Ibra è diventato il più vecchio giocatore ad aver segnato almeno 10 gol in un campionato di Serie A, strappando la palma d’oro nientemeno che al mito Silvio Piola, in gol a 38 anni 4 mesi e 5 giorni nel 1951-52. Primo giocatore a segnare almeno 50 gol sia con l’Inter che con il Milan.

In questa stagione, 19 partite, 11 gol, 5 assist: un gol ogni 137 minuti su 1509 in cui è stato in campo. L’elisir di eterna giovinezza gli ha regalato più di 300 gol da quando ha compiuto 30 anni. Sono cifre da capogiro, spiegabili non solo con il beneplacito di Madre Natura, ma anche con un’evoluzione tattica che lo ha portato ad essere prima un attaccante in appoggio alla prima punta (vedi Trezeguet alla Juve, Adriano e Crespo all’Inter), per poi prendere lui i riflettori del bomber puro. E a beneficiare del suo gioco sono anche e soprattutto i compagni di squadra, resi migliori non solo dal suo carisma e dalla sua mentalità vincente, ma anche dalla sua capacità di attirare su di sé gli avversari e consegnare sempre il pallone giusto negli spazi a chi si sa inserire dietro di lui. Nelle due fasi lunari milaniste sono tanti i satelliti che gli devono grazie, a cominciare dal più inaspettato di tutti, quell’Antonio Nocerino che, da semplice mediano di quantità, divenne incursore implacabile nella stagione 2011-2012. 11 gol in dote, cui se ne aggiunsero solo altri 5 nell’annata successiva, perché Zlatan era volato sotto la Tour Eiffel. Il gioco era semplice: Ibra controlla, sposta qualsiasi avversario con il corpo, passa il pallone a Nocerino… e lui va ad abbracciarlo dopo il gol! Non solo lui, però, perché anche Robinho, nell’anno dell’ultimo scudetto rossonero, potè godere dei servizi dello svedese. Arrivati entrambi nelle ultime ore di mercato in pompa magna, non tradirono le attese. Il brasiliano mise a segno in quella prima stagione rossonera ben 15 gol e 6 assist, lui che né prima né dopo era mai stato capace di far tanto, nemmeno nell’epoca d’oro del Santos prima e del Real Madrid poi. Sulla stessa falsariga Alexandre Pato, rinvigorito nel cuore dall’allora love story con Barbara Berlusconi, ma favorito in campo sicuramente dalle giocate di Ibra. Il suo score parlò chiaro: un gol ogni due partite, devastante se in giornata, 16 reti e 4 assist in totale.

È passato un decennio, ma è come se Zlatan fosse stato su Andromeda e fosse ritornato invecchiato di appena dieci minuti, mentre noi imbiancavamo i capelli qui sulla terra. Ha rinvigorito un Milan spento e rassegnato all’ennesima stagione anonima, commentando con la sua solita grandeur: “Peccato per San Siro vuoto che non può ammirare me, peccato che non sono qui da primo giorno, sennò vincevamo Scudetto!”. Ha preso Rafael Leao sotto la sua ala e l’ha plasmato, anzi pardòn, lo sta plasmando per farlo diventare un giocatore vero e continuo. Ha, soprattutto, messo le polveri in canna ad Ante Rebić, fino a dicembre oggetto misterioso, e Hakan Çalhanoglu, su cui ormai si erano perse le speranze di poterlo vedere continuo e decisivo, di pari passo alla sua classe. Ibra ha limitato i giri del motore, perché sì, la carta d’identità qualche limite lo pone, ma il suo fisico scultoreo fa gravitare su di sé almeno due avversari ogni volta che stoppa il pallone. Che puntualmente non perde mai e che serve subito ad uno dei compagni pronti ad inserirsi. Rebić, dopo le luci del mondiale, è diventato anche ciò che non era mai stato in carriera: un bomber, con 12 gol e 5 assist in 34 presenze. Stesso dicasi per il turco, che ha inanellato 11 centri e 9 assist. Merito anche di Stefano Pioli, che ha capito che il faro Ibra poteva irradiare la luce nei punti giusti agli altri elementi, schierati lì dove potevano dare il massimo. Hakan è un eccellente trequartista, Ante un incursore che sa occupare l’area di rigore quando lo svedese va a battagliare fuori dai confini.

Gli unici che non hanno beneficiato della sua presenza, in carriera, sono stati Leo Messi ed Edinson Cavani. Ma, se il primo a Barcellona è un re ed ha subito buttato giù dalla torre catalana Zlatan, al termine di una stagione in cui comunque sono stati scritti a referto 20 gol, a Parigi è stato lo svedese a dettar legge. Relegando l’uruguagio, in una convivenza forzata, al primo ruolo che ricoprì nel Palermo, cioè quello di ala sinistra. Ed è stato Ibra stesso a decidere di interrompere le scintille per volare a Manchester, dove si è regalato l’Europa League per placare almeno un poco l’astinenza da Champions League. Non a caso, dopo la sua partenza Cavani ha fatto registrare i suoi score personali parigini più alti nelle stagioni a venire: rispettivamente 35 reti in 36 presenze e 28 in 32 l’anno successivo. La media degli anni “zlataniani” era ferma “soltanto” a quota 17,6.

Non c’è proprio dubbio, comunque: Ibrahimović con lo scorrere del tempo non deperisce e, anzi, se fossimo nel film di David Fincher, alla domanda della protagonista Daisy: “Zlatan, cosa si prova a ringiovanire?”, Ibra risponderebbe come il curioso Benjamin: “Non saprei dire.. io mi vedo sempre con gli stessi occhi”.