Fino al 1997 Patrick Rafter aveva vinto solo un titolo in carriera. Nel 1994 a Manchester, sull’amata erba, sconfiggendo in finale il sudafricano Wayne Ferreira. In quegli anni il tennis stava già cambiando pelle. Era l’epoca degli attaccanti e dei contrattaccanti da fondocampo, degli “arrotini spagnoli”, del top-spin esasperato. Era l’epoca in cui i tennisti vecchio stile trovavano qualche difficoltà soprattutto sulle superfici più lente. Rafter rientrava in questo gruppo: aggrediva la palla fin dal primo scambio, guadagnando la rete anche subito dopo il servizio. Estremizzava una tattica che sembrava appartenere a un’altra era: il serve-and-volley.
L’anno migliore di Pat fu indubbiamente il 1997. L’exploit arrivò durante l’estate, agli US Open. Anche se, a dire il vero, una prima sorpresa c’era stata già a Parigi, sul lento rosso che Rafter non amava particolarmente. In quella edizione del Roland Garros, l’australiano riuscì a guadagnarsi addirittura la semifinale, battuto poi dallo specialista Bruguera. Ma molti commentatori credettero che quello di Rafter fosse un passaggio sfuggente e non ripetibile. Aveva avuto indubbiamente fortuna nel tabellone, visto che gli erano toccati avversari tutto sommato abbordabili. E quell’edizione, poi vinta dal carneade Kuerten, verrà ricordata per una delle più sorprendenti e ricca di colpi di scena.
Per certi versi anche l’US Open ’97 somigliò al Roland Garros. Delle prime teste di serie solo Chang raggiunse quantomeno le semifinali. Per Rafter, numero 13 del tabellone, già i primi due turni sembravano insidiosi. L’australiano riesce prima a battere in tre set l’ucraino Medvedev, ex n.4 del mondo, poi si sbarazza agevolmente (6-2 6-1 6-2) di Magnus Norman, giovane tennista svedese che non più tardi di un mese prima aveva vinto il suo primo titolo ATP sulla terra di Båstad. Rafter è lanciatissimo, e al terzo turno lascia solo quattro game anche al francese Lionel Roux.
Gli ottavi lo mettono di fronte a un mostro sacro del tennis, finito però nelle retrovie della classifica, André Agassi. Il match contro il campione statunitense può rappresentare la svolta nella carriera di Pat. È il momento di osare e Rafter non si lascia scappare la grande opportunità. Perde il primo set del torneo, ma porta a casa la vittoria con il punteggio di 6-3 7-6 4-6 6-3. Dicevamo che anche questo US Open fu ricco di colpi di scena. E infatti il tabellone dei quarti non vedeva la presenza di Sampras (sconfitto agli ottavi dal ceco Korda), Kafelnikov (estromesso al terzo turno da Woodforde), Ivanisevic (fuori addirittura al primo turno dal modesto rumeno Pescariu) e Muster (eliminato dall’ostico britannico Henman). Senza contare le defezioni di Corretja, Bruguera, Moyá e Kuerten, poco a loro agio sul cemento americano.
Rafter sconfigge un altro svedese, Larsson, sempre in tre set e approda senza problemi in semifinale. Qui lo aspetta il più temibile del lotto, Michael Chang, l’unico dei primi del tabellone a mantenere i pronostici. Ma l’australiano è un rullo compressore, e nemmeno Chang può nulla. La battaglia dura solo tre set e Rafter se la aggiudica 6-3 6-3 6-4. Siamo all’atto finale. L’unico ostacolo per la prima vittoria in uno Slam si chiama Greg Rusedski. Anche il canadese naturalizzato britannico è un outsider e in semifinale ha fatto fuori Jonas Björkman. Rafter scappa subito via, aggiudicandosi i primi due set con relativa facilità. Rusedski ha una reazione, che lo porta a conquistare il terzo set, ma non può nulla contro il ritorno dell’australiano: 7-5 e Rafter può alzare al cielo il trofeo.
L’anno successivo Rafter, accreditato della testa di serie numero 3, bisserà il successo. Stavolta sconfiggendo in finale il connazionale Mark Philippoussis. Ma il vero capolavoro arriva in semifinale, dove sconfigge in cinque set 6-7 6-4 2-6 6-4 6-3 Pete Sampras, vertice della classifica ATP. Una gara straordinaria, vinta grazie all’intensità e alla caparbietà. Un’altra grande vittoria nel segno del suo mitico serve-and-volley.
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