Primo Piano

Buon compleanno Italia ’90 – Italia-Argentina, Schillaci non basta! Rigori fatali, nella Napoli di Diego

La Germania ha superato di misura la Cecoslovacchia, l’Inghilterra ha faticato non poco contro la rivelazione Camerun (ci è voluto il solito Lineker ai tempi supplementari), l’Argentina ha fatto ancora peggio a Firenze contro la Jugoslavia, ma i rigori le sono stati risolutivi. E noi, infine, abbiamo avuto il solito Totò “occhi sgranati” Schillaci a risolvere la pratica contro l’Irlanda. Per le semifinali, dunque, come una forbice che si allarga a dismisura, le sedi prescelte sono Torino e Napoli: la prima a Nord-Ovest, la seconda a Sud. Germania e Inghilterra rinnoveranno la loro rivalità storica (vedi la finale del Mondiale ’66) allo Stadio Delle Alpi, l’Italia scende, invece, a Napoli contro i sudamericani. Se il destino fin lì ci era stato benevolo, in quell’occasione la ruota della fortuna aveva improvvisamente sterzato. Il perché è presto spiegato.

Il 29 Aprile del 1990, nel giorno del secondo Scudetto vinto dal Napoli, infatti, Diego Armando Maradona invitò ad assistere alla gara contro la Lazio allo Stadio San Paolo tutta la nazionale argentina ed il CT Carlos Bilardo che, in quel momento, era già al ritiro pre-mondiale: prima in Svizzera, sul lago di Thun, poi successivamente nel centro sportivo romanista di Trigoria. Napoli, il Napoli e l’Argentina, un binomio sempre più inossidabile da quando Diego è approdato alle pendici del Vesuvio. E la testimonianza viva che in quella città le divinità sono soltanto due: San Gennaro e Diego Armando Maradona. In quel momento storico, con la Lega Nord al suo apice politico, Napoli era la città più meridionale del Mezzogiorno, la cartina di tornasole di tutto il marcio del Sud Italia. E Diego Armando Maradona era il paladino di quel Sud, contro il Nord oppressore vestito con la casacca a strisce bianconere e, soprattutto, con quella a strisce rossonere. Contro il Milan, infatti, c’erano stati gli appassionanti duelli-Scudetto, terminati due volte appannaggio dei partenopei e una volta dei meneghini. Con lo strascico di polemiche dell’ultima stagione: la fatal Verona, la monetina di Alemao, il gol annullato a Marronaro. Insomma, il Bel Paese era spaccato in due, calcisticamente e geograficamente. El Pibe de Oro, con solito carisma e sempre vigile scaltrezza, sapeva di poter sfruttare questo suo successo italiano anche per la Selección. Finito il campionato e molto prima che i mondiali cominciassero, si era già lamentato per il girone ed il percorso ingiusto toccato all’Argentina, detentrice del titolo. Il torneo sarebbe stato truccato per permettere all’Italia di vincere. Il giorno della gara inaugurale a San Siro, Argentina contro Camerun, ci fu subito il primo segnale del “sentiment” italiano: quando la telecamera fece una panoramica sull’undici albiceleste, il pubblico rimase muto, ma, quando indugiò su Diego Maradona, 80.000 spettatori fecero precipitare dagli spalti una pioggia di fischi e insulti. Il nemico numero uno era lui. Un odio razzista curioso, destinato per la prima volta ad un uomo dalla pelle bianca che giocava in una squadra del loro Paese, piuttosto che ad undici giocatori africani di colore. Il razzismo, si sa, è odiabile in ogni sua forma.

Prima della semifinale, in un moto di evidente timore, i politici italiani si accalcavano ai microfoni della stampa per appellarsi ai napoletani e incitarli a tifare Italia e non Maradona. Ma Diego la sapeva più lunga di loro e, nei due giorni antecedenti alla sfida che valeva la finale, rilasciò una dichiarazione destinata a far molto rumore: “I politici del nord se ne escono adesso con questi appelli. Dopo tanto razzismo, ora si affrettano a ricordare che Napoli fa parte dell’Italia. Dopo che per 364 giorni l’anno li chiamano terroni, appestati, terremotati. Dopo averli presi a schiaffi in tutte le maniere possibili, ora dicono che anche i napoletani sono italiani”. Se non è un politico anche questo… I tifosi napoletani, in ogni caso, risposero con uno striscione ambivalente sugli spalti del San Paolo: “Maradona, Napoli ti ama, ma l’Italia è la nostra patria!”.

Per la partita contro gli argentini, il CT Azeglio Vicini non cambia nulla rispetto alla partita contro l’Irlanda. O quasi. A sorpresa, infatti, toglie dal fronte Roberto Baggio e butta nuovamente nella mischia Gianluca Vialli, che ha smaltito tutti i suoi malanni fisici e mentali e può, finalmente, aver l’occasione di far suo quel mondiale che, fin lì, gli aveva dato picche. La formazione è la seguente, Italia (4-4-2): Zenga; Bergomi, Baresi, Ferri, Maldini; Donadoni, De Napoli, Giannini, De Agostini; Vialli, Schillaci; CT. Vicini. Allo zio Bergomi toccherà marcare Maradona, mentre sarà la “roccia” Ferri ad occuparsi di Caniggia. L’undici di Bilardo è, in sostanza, più abbottonato, con una difesa folta a cinque e un centrocampo a tre, in cui Burruchaga deve fare solo una cosa, dare la palla al “Dièz”. L’Argentina, dunque, è questa (5-3-2): Goycochea; Giusti, Serrizuela, Simòn, Ruggeri, Olarticoechea; Basualdo, Burruchaga, Calderòn; Maradona, Caniggia; CT. Bilardo. Non è stato un mondiale esaltante, fin qui, per la Selecciòn. Fuori molti dei senatori campioni del mondo, compreso Valdano ormai a fine carriera, il “Tata” Brown e altri. C’è il veto di Diego su Ramòn Dìaz, attaccante in formissima dell’Inter dei record. C’è invece Balbo, retrocesso in B con l’Udinese. Il clima non è dei migliori, l’albiceleste ha perso 1-0 contro il Camerun all’esordio, ha vinto soltanto 2-0 contro l’URSS nel girone (con tanto di nuova “mano de Diòs di Maradona, questa volta utile a salvare un gol in difesa e, come sempre, non vista dalla terna arbitrale), negli ottavi ha trovato l’acuto di Caniggia su genialata di Diego contro un Brasile “addormentato” da strane borracce e che, però, era stato nettamente superiore in partita. Infine, al Franchi contro l’ultima Jugoslavia della storia, guidata dall’illuminista Dragan Stoijkvoic, non è andata oltre lo 0-0 fino al 120’. Ai rigori, poi, hanno fallito sia Maradona (sorpresa!) sia Troglio. Per fortuna loro, in porta c’è un “milonguero” di origini basche dallo sguardo triste e un po’ imbronciato, che ha grande istinto, gran personalità e due manone da posto di blocco. Si chiama Sergio Goycochea e prende il posto di Pumpido, fuori per un infortunio contro l’Unione Sovietica. Agli jugoslavi Sergio ne para due di penalties (a Brnovic e Hadzibegic), il grande “Pixie” Stojkovic ne manda un altro sulla traversa, così l’Argentina conquista la semifinale.

La partita comincia alle 20, al San Paolo c’è ancora la luce del sole verso il tramonto e il copione è subito chiaro: Bilardo lascia il gioco ai padroni di casa e si affida unicamente al contropiede, all’8’ Zenga sventa in angolo una bordata da fuori area di Burruchaga, ma è l’unico acuto argentino. L’Italia sale di tono e al 17’ confeziona un’azione magistrale: a centrocampo, sulla sinistra, Schillaci lotta contro due avversari e vince un rimpallo, quindi serve la palla al centro dove De Napoli di piatto destro verticalizza subito per Giannini, finta di corpo e palla a Vialli che repentinamente chiude il triangolo con il “principe” giallorosso. Quest’ultimo tenta un sombrero ad un difensore al limite dell’area e di testa la appoggia ancora a Vialli, che lascia partire un destro violento al volo, Goycochea si oppone con i guantoni, ma sulla respinta arriva ancora l’inserimento e il guizzo vincente di Schillaci, che ribadisce il pallone in rete. GOL, 1-0, Italia in vantaggio! Il San Paolo esplode letteralmente, confermando senza equivoci la sua scelta di campo: questa sera si tifa Italia, Maradona se ne faccia una ragione. A Pizzul scappa un sorriso in telecronaca: “Ancora Totò, ancora Schillaci, sul primo affondo italiano: è il suo momento magico!”. Al momento dell’esultanza verso la bandierina, anche Giannini conferma le impressioni del telecronista più amato di sempre, come svelato anni dopo dallo stesso Totò: “Colpii la palla quasi con la tibia, andai ad esultare sul corner, mi voltai e c’era Giannini che mi disse: Ao’ che culo che c’hai!“.

La reazione dell’Argentina viene affidata al suo leader, Maradona fa il giocoliere al limite dell’area ed offre una bella girata al volo, che finisce però placida tra le braccia di Zenga. Si va al riposo sull’1-0 e senza particolari emozioni, la stanchezza e la tensione per la posta in palio hanno il loro peso. Nella ripresa Bilardo toglie Calderon e inserisce Troglio (da leggere rigorosamente storpiando le sillabe: Trog – lio), dopo 10’ ancora una volta Zenga deve rimandare in angolo un tentativo questa volta di Giusti. I giri del motore argentino salgono, Ferri salva all’ultimo un’azione pericolosa di Caniggia. Siamo stanchi e Vicini dovrebbe cambiare, ma la paura e la prospettiva di eventuali supplementari lo paralizza in panchina. Così, al 24’ la frittata: Maradona allarga il gioco per Olarticoechea e quest’ultimo lascia partire un traversone, di per sé innocuo, verso l’area di rigore. Caniggia, al centro dell’area, si eleva per colpire di testa e Zenga, invece di restare tra i pali, tenta un’uscita avventurosa e infruttuosa. “El hijo del viento” anticipa di un soffio sia lui che Ferri e la palla, lemme lemme, finisce in rete. GOL, 1-1, partita di nuovo in parità! L’ultima volta che Zenga aveva visto il pallone in fondo al sacco alle sue spalle era stato nell’ottobre del 1989, 881 minuti e 10 partite prima. È quello il primo gol subìto al mondiale, un gol di troppo.

Quell’episodio è uno schiaffo che desta il CT, finalmente in vena di cambi: entra Aldo Serena al posto di uno spento Vialli, poco dopo Roberto Baggio rileva Giannini, per dare uno spunto in più alla manovra. La tensione, però, è la più forte, gli argentini ormai speculano sugli azzurri, Maradona dirige il traffico e dà una mano ai compagni, mentre noi non riusciamo a creare occasioni da gol. Al 90’, quindi, è 1-1 e si va ai supplementari, che sono una vera e propria agonia. Basualdo lascia il posto a Sergio Batista, le squadre si trascinano stancamente e grondano sudore che si riversa sui muscoli delle gambe, illuminandole come fossero vestite di lustrini. Goyochea vola, letteralmente vola a togliere da sotto la traversa una punizione di Roberto Baggio che ha del poetico. L’Argentina resta addirittura in dieci uomini, a causa del secondo giallo rimediato da Giusti per un brutto fallo proprio su Baggio. L’arbitro francese Vautrot, in un moto di solidarietà europea, dopo il rosso concede ben nove minuti di recupero per far segnare gli azzurri, ma il gol non arriva. Secondo supplementare, il più fresco è Baggio e serve un assist meraviglioso a Serena, ma in scivolata il piedone di Serrizuela sventa quello che sarebbe stato un gol sicuro. Gli argentini spezzettano il gioco come una cipolla per il soffritto, i falli sono numerosi. Si va, così, ai calci di rigore.

Lo Stadio San Paolo si ammutolisce, la scaramanzia detta legge. I primi sei tiri dal dischetto vanno tutti a segno, Zenga e Goycochea sfiorano soltanto la palla sulle esecuzioni di Serrizuela e Baggio, siamo in parità: 3-3. Dal dischetto si presenta stavolta Roberto Donadoni, uno dei piedi e delle menti più raffinate del calcio italiano. Giannini è uscito, Schillaci ha male all’inguine, perciò tocca a lui. Il volto è sereno, di chi ha la personalità dei momenti decisivi. La rincorsa è giusta, il piatto destro indirizza la palla verso destra… ma Goycochea mostra tutta la sua esplosività, si tuffa dalla parte giusta e respinge alla sua maniera, plateale. Rigore sbagliato, tocca a Maradona. Con la Jugoslavia ha sbagliato e davanti al pubblico di Napoli, il suo pubblico, non può fallire. Calcia esattamente come contro i balcanici, ma stavolta il suo piatto sinistro è un colpo da biliardo rasoterra che finisce all’angolino, Zenga accenna un tuffo dalla parte opposta e nemmeno cade a terra, arrendendosi al gol di Diego. Ora siamo sotto 4-3 (5-4 se consideriamo i gol dei tempi regolamentari), dobbiamo segnare e sperare nell’errore altrui all’ultima battuta. Tocca ad Aldo Serena, più fresco di altri essendo entrato dopo. La sua faccia non promette nulla di buono però: è teso, scuro in volto. Serena prende la rincorsa e calcia un rigore nemmeno troppo potente e centrale, Goycochea non si sposta, accomoda la sfera sotto la pancia e la tiene lì senza farsela sfuggire… han vinto loro, in finale ci va l’Argentina. Mai sconfitti sul campo, eppure fuori da casa nostra. Da Aosta a Palermo non dev’esser volata una mosca per almeno un’ora intera, il Paese calcistico è sotto shock: le notti magiche sono finite. Anche Pizzul si arrende: “L’Argentina è finalista in coppa del mondo, sono immagini che non avremmo mai voluto commentare”.

Quando cinque giorni dopo, allo Stadio Olimpico, nella finale tra Germania e Argentina, risuonò l’inno albiceleste, una nuova pioggia di fischi assordanti e insulti scrosciò dalle tribune e la telecamera che indugiò nuovamente su Maradona lo colse stavolta in mondovisione commosso e irritato e lui, ben sapendo di essere ripreso, chiuse quel mondiale in modo eloquente: “HIJOS DE PUTA!”.