Questa mattina, aperto Facebook, ci siamo subito imbattuti in una foto del collega Giacomo Moccetti della RSI con Pierino Prati. Non abbiamo avuto bisogno di leggere la didascalia, subito era tutto chiaro. Non ci vergogniamo: gli occhi ci si sono riempiti di lacrime, come se si fosse trattato di un parente. E lo sono anche adesso, mentre scriviamo queste righe.
Prati era milanese (quasi: nacque a Cinisello, il 13 dicembre 1946) e, quindi, era naturale che muovesse i primi passi nel vivaio della propria squadra del cuore, il Milan. Ai tempi, i giovani venivano spediti a farsi le ossa in provincia, e fu così anche per Pierino.
A Salerno, in terza categoria, contribuisce a suon di gol a trascinare i granata in Serie B nella stagione 1965/66, tanto che il Milan lo riporta a casa, facendolo debuttare in Serie A. Ma il Paròn decide che è presto per i grandi, e lo manda così a Savona, un luogo che gli resterà sempre nel cuore (concluderà lì la sua carriera). In biancoblù fa sfracelli (15 centri in 29 incontri), tanto che la dirigenza ligure ne chiede la cessione definitiva, offrendo (si dice) una cifra importante rispetto ai parametri di allora per un giovane alle prime armi.
In via Turati qualcuno drizza le antenne. A fine stagione, Pierino torna così a Milanello, e Rocco gli trova un posto in squadra. Il sodalizio tra il tecnico triestino e il ragazzo di Cinisello porterà al Milan, nel giro di qualche anno, tutto quello che si poteva vincere all’epoca. Coppa Italia (2), Coppa delle Coppe (2), scudetto, Coppa Campioni e Intercontinentale, al quale si deve aggiungere l’Europeo del 1968 con la maglia azzurra.
Questo era Prati a grandi linee, per le statistiche e per la storia del calcio italiano. Per noi, invece, fu molto altro. Pierino, con Rivera, fu l’uomo che ci fece innamorare del calcio, quello che ci ha fatto compiere il primo passo, che ha orientato la nostra vita in un certo modo. Senza questa passione, avremmo vissuto diversamente. Meglio? Chissà, ma in maniera differente. Tante amicizie, la nostra stessa vita professionale ruotano attorno questa malattia. E siccome ci piace, amiamo le persone attorno a noi, specialmente quelle che raccontano calcio, va bene così.
Era il 22 novembre del 1970. Le fotografie in bianco e nero di allora ci dicono che c’era il sole, ma che faceva fresco. In un’istantanea veniamo ritratti in cima alla rampa di accesso ai Popolari, con il sorriso sul volto e, sullo sfondo, lo spazio dove, pochi anni dopo, sorgerà il Palazzone, vittima della nevicata del 1985.
Al centro del campo, verde smeraldo come non l’abbiamo mai visto (la televisione è in bianco e nero, come sappiamo), il triangolo pubblicitario della Termozeta, che ci fece compagnia per tanti anni successivi. E lo speaker, quella voce inconfondibile che ci ha accompagnato per decenni. Stesso tono, giocassero il Milan o l’Inter. Non sapremo mai per chi tifasse.
Siamo arrivati in anticipo. La sfida è con il Lanerossi Vicenza, non una partita di cartello. Nostro padre non vuole rischiare di essere coinvolto in tafferugli ma, soprattutto, l’intenzione è quella di evitare sorprese che possano incrinare la nostra ancora acerba fede. Nostra madre, interista tiepida, a casa ci insidia: battutine, punzecchiature. Siamo, insomma, a rischio. E lui, una prospettiva di quel tipo, non vuole neppure prenderla in considerazione.
San Siro si apre davanti a noi con tutta la sua imponenza e i suoi colori. Stringiamo al petto una bandierina che il vento ha già tentato un paio di volte di rapire, come se dietro ci fosse nostra madre, nell’ultimo tentativo di conversione alla propria causa nerazzurra. Lo stadio lentamente si riempie. Lo speaker recita “Estintori Meteor: i più efficaci e moderni mezzi che vi difendono dal fuoco. Pero – Milano”. È incredibile come i ricordi siano ancora così chiari, dopo tutti questi anni.
È il momento delle formazioni. Dagli altoparlanti esce prima quella dei biancorossi: “È un dovere di ospitalità” ci dice nostro padre. Nel contempo, i nomi appaiono sul tabellone luminoso. Poi arriva il momento. “Milan… Cudicini, Anquilletti, Trapattoni, Rosato, Schnellinger, Rognoni, Villa, Benetti, Rivera, Prati. Allenatore il signor Nereo Rocco!”
Agli ultimi due nomi il pubblico ha rumoreggiato di più. Chiedo a mio padre il motivo. “Perché sono quelli che fanno sempre gol! Ora vedrai.” La folla non è imponente come ci capiterà di vedere in altre occasioni, ma sono sempre circa 50.000 i tifosi che, quel giorno, sono allo stadio. Fortunati, perché assisteranno a uno show del numero 11 del Milan.
Pierino, infatti, andrà a segno in ben tre occasioni: al 9′, 15′ e 71′ (su punizione). A ispirare, a pennellare calcio, il numero 10: quel Gianni Rivera del quale, tante, volte, mio padre ha parlato in termini entusiastici. Fu quello il giorno del nostro matrimonio con San Siro: e quest’anno saranno nozze d’oro, anche se ora gli impegni professionali ci portano sovente lontani. Ma il cuore è sempre lì: una notifica, una radiocronaca o, semplicemente, le luci accese che vediamo dalle finestre della nostra casa.
A fine 1973, dopo la Fatal Verona, Pierino andò a Roma, dove andò ancora a segno 28 volte in 4 stagioni. Fu una grande perdita per noi, che non avevamo ancora chiare le dinamiche societarie, il tempo che passava. Si disse, all’epoca, che fu Gianni a non volerlo più. Non ci abbiamo mai creduto ma, come abbiamo sempre scritto, su questo argomento non saremo mai obbiettivi.
Ma nel suo cuore c’era il Milan. Lo abbiamo visto, in questi ultimi anni, ritratto tante volte coi ragazzini della sua scuola calcio, rigorosamente con maglie rossonere. Ed è così che lo vogliamo ricordare: perché anche e soprattutto grazie a lui ci siamo innamorati del calcio, e di tutto ciò che di positivo rappresenta.
Ciao Pierino: fai esplodere di gioia tutti i rossoneri lassù in Paradiso, coi tuoi gol. Guarda verso i popolari quando esulti: vedrai un ragazzo con un impermeabile chiaro. Al suo fianco, c’è un posto libero. Prima o poi, verrà qualcuno a occuparlo e lo abbraccerà, stretto stretto, come succedeva lì, e negli stadi di mezza Europa.