Alexander Gómez sognava di giocare un giorno per il suo Messico. Aveva 16 anni, faceva il calciatore a livello semi professionistico, presso il Rayados de Tierra Blanca (una squadra affiliata al ben più conosciuto Monterrey) e da tutti era descritto come un ragazzo per bene. Poi, all’improvviso, uno sparo alla testa da parte di un poliziotto ha messo fine alla sua vita, ai suoi sogni e desideri, provocando un’immediata ondata di proteste di fronte all’ennesimo abuso di potere da parte delle forze dell’ordine.
La triste vicenda è avvenuta giovedì notte nella piccola città di Vicente Camalote, appartenente allo stato di Oaxaca. Secondo le ricostruzioni, lo sparo sarebbe partito da una pattuglia: Gómez e un suo amico di 15 anni erano a un distributore di benzina per comprare una bibita e, dopo aver sentito i primi spari, avrebbero cominciato a correre, finché un colpo non ha raggiunto la testa della giovane vittima. Secondo il cugino, intervistato da Reforma, non sarebbe stata concessa nemmeno la possibilità di fermarsi o togliersi le maschere facciali, oltre ad aver privato Gómez degli aiuti di primo soccorso.
Le autorità municipali hanno parlato di un incidente, ma in Messico la tensione è alta già da anni: negli scorsi giorni, un’ondata di proteste d’indignazione nazionale ha portato numerose persone a scendere in piazza, in memoria della morte di Giovanni López, detenuto forzatamente dalla polizia municipale per non voler indossare una maschera e poi fatto trovare morto il giorno dopo alla sua famiglia. Un’inevitabile conseguenza dopo ore di torture e percussioni, fino all’esecuzione a titolo totalmente discrezionale.
La storia di Gómez, insomma, non è un caso isolato: le forze di sicurezza messicane sono accusate da anni di brutalità e incompetenza, in un vortice di violenza che caratterizza da tanto tempo il Paese centroamericano. Basti guardare ai numeri: soltanto nel 2019, si sono contati 35mila omicidi, in una vera e propria guerra che contrappone mafie (divise a loro volta in gruppi rivali che lottano per dividersi il Paese), autorità locali e governo sulla pelle dei civili. Nemmeno Siria e Afghanistan, per intenderci, raggiungono i numeri spaventosi del Messico.
Alexander Gómez, nato a Raleigh in North Carolina ma tornato in Messico dopo il miglioramento delle condizioni economiche della sua famiglia, aveva scelto spontaneamente di non tornare negli Stati Uniti. Voleva rimanere in Messico per coronare il suo sogno di diventare un calciatore, avrebbe dovuto pure frequentare il college nello stato di Veracruz, lo stesso in cui giocava a calcio.
Il destino, però, gli ha riservato il dramma peggiore. Una storia che ha colpito tutti, in primis i compagni di squadra, che negli scorsi giorni hanno pensato di omaggiare l’amico nel miglior modo possibile: facendogli segnare un ultimo gol dalla sua bara, prima di unirsi poi tutti in un abbraccio disperato. Quello di tante famiglie vittime di una delle più brutali e silenziose guerre civili al mondo.