In Primo Piano

Verso #Euro2020 – 1988: il Cigno di Utrecht segna il gol del secolo. L’URSS crolla prima a Monaco… e poi a Berlino!

Il 1988 è l’anno del canto del cigno della Guerra Fredda, il mondo diviso in due blocchi sta per essere spaccato dalla caduta del muro di Berlino (9 Novembre 1989), ma i primi vagiti dell’imminente fine si erano uditi già due anni prima. L’elezione a nuovo segretario del PCUS di Michail Gorbačëv, nel corso del 28º congresso del partito, è un segnale di apertura all’occidente con la sua politica di riforme basata sulla glasnost. Il nefasto incidente alla centrale nucleare di Černobyl’ fa crollare anche le granitiche certezze di alta eccellenza tecnologica e nucleare dei sovietici. L’incontro a Reykjavík di Gorbačëv con il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan per discutere sull’eliminazione delle armi nucleari a raggio intermedio installate in Europa, infatti, ne è il conseguente e successivo simbolo. Ratificato nel Trattato INF tra i due paesi. Quando il muro che separa Berlino Est da Berlino Ovest si sgretola sotto i colpi di piccone di migliaia di giovani in festa, si gettano le basi per la riunificazione delle due Germanie, che avverrà l’anno successivo. E cadono, oltre al muro, i regimi comunisti dei paesi dell’Est, come Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgari e Romania. L’Unione Sovietica ci metterà poco in più per ammainare la propria bandiera, nel 1991 per la precisione. Gorbačëv ci mette la firma e si dimette, così come il Soviet Supremo.

In un’Italia post maxi-processo alla mafia, ma i cui attentati sono ben lontani dal cessare (vedi il sociologo e giornalista Mauro Rostagno, ex leader di Lotta Continua) ci sono gli echi statunitensi dell’operazione “Pizza Connection”, che vede coinvolto anche il giudice Giovanni Falcone (dalla parte dei buoni, s’intenda ovviamente). E piovono mandati di cattura, più di 300 tra Napoli, Palermo e New York. Un traffico intercontinentale di droga, celato nei retrobottega di anonime pizzerie di Manhattan, che facevano da copertura. E ci sono da pagare anche i primi conti con il delittuoso decennio degli anni di piombo: per la strage di Bologna, vengono condannati all’ergastolo gli estremisti neri Valerio Fioravanti e la compagna Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sandro Picciafuoco. Soltanto negli ultimi tempi è stato accertato il pieno coinvolgimento, tra i mandanti, di Licio Gelli, il famigerato capo della loggia massonica P2. Inizialmente, prese soltanto dieci anni per calunnia e fu assolto dall’imputazione di associazione sovversiva. Allo stesso modo, arrivano gli arresti anche per l’omicidio del commissario Calabresi. Finiscono in manette i leader di Lotta Continua Adriano SofriGiorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, a seguito delle rivelazioni del pentito Leonardo Marino.

Esplode, infine, lo scandalo delle “carceri d’oro”, cioè bustarelle distribuite ai politici per gli appalti sulla costruzione degli istituti penitenziari. Tangentopoli is coming…

Tutto questo non tocca molto da vicino Marco Van Basten. Ha ben altre gatte da pelare e non è mai stato uno dai grandi eccessi d’entusiasmo. Ma uno di quelli che faceva uscire fuori di senno, esaltava e faceva impazzire di gioia chi lo guardava, questo sì. Anche un’ora dopo aver vinto praticamente da solo l’Europeo in Germania, già pensava alla stagione successiva, perché voleva incidere anche nel Milan, molto di più di quello che aveva potuto fare fino ad allora, a causa dei guasti della sua caviglia maledetta. Johan Cruijff la figura calcistica più importante per lui: “A forza di sentirmi dire che ero speciale, ho finito per crederci anch’io”, spiega Marco nella sua autobiografia, dal titolo che è tutto un programma: “FRAGILE”, dalla quale ci arrivano importanti indicazioni. Per il ragazzo di Utrecht (diventerà “Cigno”) il calcio è “un gioco da bambini, io ti do una cosa, tu cosa mi dai in cambio? Funzionano così i rapporti in questo mondo”. Uno che mette i calciatori al centro del palco e gli allenatori relegati in un angolo. “Sacchi? La storia l’hanno fatta i suoi calciatori, non ha inventato nulla di nuovo, ha vinto grazie ad una difesa di ferro”. Affermazione da farti sobbalzare sulla sedia, ma rientra perfettamente nel personaggio. È lui l’assoluto protagonista della storia dei Campionati europei in Germania del 1988, gli ultimi della Guerra Fredda. I primi in cui, finalmente, l’Olanda raccoglie i frutti del suo bellissimo raccolto.

Grigio pomeriggio di metà febbraio 1988, campo Olympiaplein. Marco Van Basten si sta riprendendo dall’infortunio alla caviglia ed il conseguente intervento a novembre fatto dal dottor Marti. Il fisioterapista di fiducia, Reinier van Dantzig, gli dà il via libera per toccare il pallone e palleggia in campo con Johan Cruijff. Sia lui che il Milan sono stanchi di aspettare. Cruijff, dimessosi dall’Ajax un mese prima, di tempo libero e voglia ragazzina di giocare a pallone ne ha da vendere. Giocano sul campo bagnato dell’AVV Swift. Van Basten già pensa alla stagione successiva con i rossoneri, il dottor Marti non voleva che forzasse, ma niente da fare.

Il Milan vince lo scudetto, il primo dell’era Berlusconi. L’allenatore, Arrigo Sacchi, prima del rompete le righe vuole una tournèe con le big d’Europa per abituare la squadra alla Coppa dei Campioni. In una sfida con il Real Madrid, il 19 maggio, il portiere colpisce in un contrasto Marco sullo zigomo e gli fa perdere i sensi e la memoria a breve termine. Marco era tornato in campo poco più di un mese prima, il 10 aprile, contro l’Empoli. Aveva segnato nella decisiva trasferta di Napoli, ma quello scudetto non lo sentiva tanto suo, era Gullit meritatamente il protagonista. Aveva voglia di rivincita, al Milan avevano visto ancora troppo poco. Si opera ad Amsterdam, cinque giorni prima del ritiro con l’Olanda. Si presenta al raduno con la faccia malconcia a Noordwijk, ematoma allo zigomo che sembra un tatuaggio futurista.

Rinus Michels imposta la squadra sul 4-3-3, ma non vede Van Basten prima punta. C’è John Bosman lì davanti, Gullit alle sue spalle. Il 1 Giugno, in un’amichevole contro la Romania, Marco sostituisce dopo un’ora Van’t Schip all’ala sinistra. La squadra vince 2-0, lui non tocca quasi mai palla. Non se la prende, è tornato da poco, vuole accumulare minuti e giocare ogni volta che è possibile. Al posto suo, s’incazza chi ci crede davvero, cioè Cruijff che, addirittura, lo prende da parte e gli consiglia di mollare l’Europeo se Michels non lo riporta al centro dell’attacco. Giocare così e finire in pasto alle critiche per un ruolo non proprio non è accettabile né giusto.

Marco è più accomodante, perché di quella rassegna in realtà gli frega poco e nemmeno ha consapevolezza ancora di poterlo davvero vincere. Gli interessa tornare in forma per il Milan, per la stagione successiva, si sente in debito. Così, la prima settimana del ritiro si allena in scioltezza, lui e Kieft schierati tra le riserve vincono sempre le partitelle. A Rinus Michels non sfugge la cosa. Si allenava anche extra-time con il fisioterapista Monne de Wit, per lo stupore dei compagni. Ma quanta voglia ha?

In attacco gioca Bosman, meglio aumentare i giri in allenamento a questo punto. Per fortuna di Marco e dell’Olanda intera arriva la partita d’esordio con l’URSS. I sovietici, da sempre, hanno feeling con gli Europei, sono stati i primi a vincerli. Non spettacolari, ma cinici e aggressivi, hanno in Dasaev uno dei migliori portieri d’Europa e in Zavarov, Protasov e Michailicenko i piedi buoni. Forgiati dalla tempra in panchina del colonnello Lobanovski come Ct. Anche nella prima partita, Van Basten gioca solo la mezz’ora finale, senza incidere. I tulipani creano, ma senza fortuna, l’Unione Sovietica segna con il centrocampista Rac e porta a casa la vittoria.

Michels allora cambia tutto, fuori Bosman e Van’t Schip, dentro Erwin Koeman e Van Basten, modulo 4-4-2. Con l’Inghilterra, al Rheinstadion di Dusseldorf, si va in campo così. Lì Marco capisce che l’Europeo sta iniziando, gli scocca la scintilla, capisce che è ora di agire. Per smorzare la tensione pre-gara, gioca a carte con Van’t Schip, cerca di fare un pisolino il pomeriggio, ma non chiude occhio. Sa che tutti gli occhi sono puntati su di lui. E via, si va allo stadio.

Passo indietro. L’uomo-chiave dell’Europeo ’88 non gioca, ma rilassa i muscoli dei giocatori. Non un massaggiatore, bensì un aptonomo: Ted Troost. Chi? Capiamo innanzitutto di cosa stiamo parlando. L’aptonomia, materia sconosciuta fino ad allora, è nata e si è sviluppata in Europa per poi trovare applicazione in tutto il mondo grazie a Frans Veldman (1921-2010), medico olandese che aveva vissuto la seconda guerra mondiale e che studiò l’affettività espressa attraverso il contatto tattile. Si compone di due parole greche: haptein, ‘contatto’, e nomos, ‘intelligenza’. Si può quindi definire come la scienza dell’affettività e delle relazioni emozionali umane. Veldman aveva notato che il contatto affettivo poteva sostenere l’uomo nella sua capacità di divenire e rimanere umano.

Troost è capace di sciogliere ogni tensione, tocca gli atleti nei punti giusti. Non gli servivano indicazioni, lui intuisce il problema e agisce… e i giocatori dormono sonni tranquilli. Gullit lo presenta a Van Basten al Milan. Era visto con scetticismo dallo staff medico ufficiale dell’Olanda per cui, durante il torneo, dormiva in un altro albergo. Il medico della federazione, Frits Kessel, si era opposto, lo vedeva come uno stregone e non voleva che la stampa ci marciasse sopra. Van Basten con un gruppo di altri giocatori lo va a trovare e lui, uno ad uno , serve tutti. Gullit, Van Breukelen e Marco ovviamente. Durante i Mondiali ’90 poi Michels, diventato dirigente federale, si accorse che Troost entrava nell’hotel olandese e chiuse gli occhi, come a dire “passa, ma io non ti ho visto. Hai un talento, ti do la mia benedizione”. E quel massaggio pre-Inghilterra, due anni prima, era stato fondamentale. Gullit era stanco dopo una stagione lunga e stressante, toccava a Van Basten, più riposato, dare di più.

L’Inghilterra comincia meglio e coglie addirittura due legni. Il primo con Lineker, a porta vuota, dopo aver superato il portiere. Il secondo, su punizione, è clamoroso: la palla calciata magistralmente da Glen Hoddle va a stamparsi sul palo e poi corre lungo tutta la linea di porta, alle spalle di Van Breukelen, senza mai entrare.

L’esultanza dopo il primo gol è una scarica di adrenalina e uno sfogo di tensione incredibile. Cross di esterno destro di Gullit, stop spalle alla porta di Van Basten con il sinistro, con Tony Adams che lo tallona da dietro. Di scatto, Van Basten si gira sul posto, tocco sotto di destro a portare la palla sul sinistro, fuori dalla portata dell’arcigno difensore dell’Arsenal. Questione di millimetri, a quei livelli fa la differenza, perché l’inglese cerca comunque di tenere il passo e cede di pochissimo. Van Basten calcia, un secondo difensore gli sporca leggermente la conclusione, ma così facendo spiazza Shilton. Gol. A Marco bastava un’occhiata per imparare postura e movimenti dell’avversario. In quell’occasione, spalle alla porta, sentì sulla pelle come dove e quando doveva muoversi. Bryan Robson riporta la sfida in parità all’8′ della ripresa, irrompendo in area e battendo Hans Van Breukelen al termine di un duetto con Lineker. Al 71’ Gullit pesca nuovamente Van Basten, che non lascia scampo a Shilton ancora di sinistro, poi l’attaccante completa la sua personale tripletta con una girata sottomisura sugli sviluppi di un colpo di testa di Wim Kieft, su corner di Erwin Koeman. Serata magica.

Semifinale ad Amburgo, Volksparkstadion. Di fronte, i padroni di casa. La Germania Ovest, favorita assoluta. Il clima è teso, i media calcano i ricordi sulla finale del ’74 e, addirittura, richiamando anche la Seconda Guerra Mondiale. Van Basten è di un’altra generazione, certe cose non lo tangono. Lui balla il tango piuttosto, quando gioca a calcio. Nulla di più, la politica non c’entra. Sono in molti ad essere carichi a pallettoni quella sera, giocare contro la padrona di casa era esaltante.

Primo tempo di rispetto dell’Olanda nei confronti dell’avversario, anche troppo. I tedeschi hanno un paio di chances, ma non le sfruttano con Voeller. Nella ripresa, però, un calcio di rigore dubbio li porta in vantaggio. Rijkaard tocca con la gamba Klinsmann in area e il biondo centravanti, futuro interista, sviene. Matthaus non sbaglia dal dischetto. A quel punto Van Basten, Ronald Koeman, Franklin Rijkaard e Hans Van Breuukelen, in una serata opaca di Gullit, capiscono di essere i quattro moschettieri che devono tirar su gli altri e dare la scossa. Gli oranje cominciano ad attaccare a tutta forza. E il penalty, dubbio, arriva pure per loro al 29’, scivolata pulita di Kohler proprio su Van Basten. Ronald Koeman trasforma, destro secco all’angolino sinistro. Il portiere va dall’altra parte. Sul campo a quel punto si percepisce che sono i più forti gli olandesi. Sul fare dei supplementari, arriva la svolta: all’89’ Jan Wouters verticalizza alla perfezione, Van Basten supera in velocità ancora Kohler, si butta in scivolata e colpisce il pallone di punta, con la forza giusta. Questo s’insacca in diagonale all’angolo lontano. Si va a Monaco. Non prima di aver ricevuto i complimenti nello spogliatoio da un signorile Franz Beckenbauer. Un gesto non da tutti ma, come dice anche Vladimir Dimitrijevic nel suo capolavoro ‘La vita è un pallone rotondo’: “Quando Diego fa il suo ingresso in un qualsiasi bar, tutti gli vogliono offrire un bicchiere. Ma a Beckenbauer no, aspettano che il giro lo paghi lui”.

Quella sera ad Amburgo è festa, si va a ballare, ci sono le fidanzate dei giocatori anche. Organizza Gullit, uno che sa “premiarsi”. Dall’Olanda arrivano le immagini di un Paese impazzito. Aver battuto i tedeschi è stato il vero atto finale di quell’europeo, è inutile negarlo.

A quel punto però, dopo due secondi posti e anni di delusioni, per l’Olanda è arrivato il tempo di essere prima. E c’è da vendicare la sconfitta con l’URSS nella prima gara. Già, proprio loro, di nuovo in finale, dopo aver eliminato a Stoccarda in semifinale l’Italia, altra favorita, con i gol di Litovchenko e Protasov. Dazaev, poi, aveva parato tutto.

Capitolo a parte, dunque, sugli azzurri. Chiusa l’era Bearzot, si era aperta quella di Azeglio Vicini che, da commissario tecnico dell’Under 21, era stato promosso in prima squadra. Portando con sé il blocco di ragazzi, giovani e di belle speranze, che erano saliti al secondo posto nell’Europeo di categoria nel 1986. In quel gruppo militano talenti puri come Zenga, Maldini, Francini, De Napoli, Donadoni, Giannini, Mancini e Vialli. Completato da gente come Ancelotti, Ferrara, Bergomi, De Agostini, Ferri, Altobelli e Franco Baresi. Il girone di qualificazione ai Campionati europei del 1988 viene vinto nel Gruppo 2 davanti a Svezia, Portogallo, Svizzera e Malta.

L’Italia non è fortunata nel sorteggio: nel proprio girone trova i padroni di casa della Germania Ovest, Spagna e Danimarca. L’esordio a Düsseldorf, proprio contro i tedeschi, che aspettano la rivincita della finale mundial dell’’82. Dopo un primo tempo equilibrato, Roberto Mancini sfrutta l’assist di Donadoni e porta avanti gli azzurri. Il Mancio festeggia con un’esultanza polemica nei confronti dei giornalisti in tribuna, molto critici nei suoi confronti. Emblema che il blu della casacca nazionale per lui non sarà mai così nitido come quello della sua Sampdoria. La Gemania trova il pari poco dopo: Zenga tiene troppo la palla ed il fischietto inglese Hackett concede una punizione a due in area. Brehme, terzino dai piedi levigati (in carriera indosserà anche la n.10, al Real Saragozza nella stagione ‘92/’93) non sbaglia e fissa il risultato sull’1-1 finale. Come battesimo ci può stare per noi, in fondo.

Il secondo match è, a quel punto, un dentro o fuori. A Francoforte il direttore d’orchestra è Ancelotti e l’assolo vincente lo trova Gianluca Vialli al 73’, su assist stavolta di Altobelli. Il giusto premio per una gara dominata. Contro la Danimarca, infine, è Vicini il protagonista, perché azzecca i cambi. Schmeichel si oppone alla grande due volte su Mancini, quindi è il turno di Altobelli e De Agostini che, entrati dalla panchina, decidono la sfida e danno agli azzurri il secondo posto nel girone, a pari merito con la Germania, ma sfavoriti nella differenza reti.

Così in semifinale agli azzurri tocca l’Unione Sovietica, vincitrice del suo girone davanti all’Olanda. La squadra di Vicini arriva all’appuntamento carica, gioca bene ed è forte del 4-1 rifilato in amichevole ai sovietici in un’amichevole giocata a Bari qualche mese prima. Ma a Stoccarda sarà tutta un’altra musica

La finale, 25 giugno 1988. Per smorzare la tensione e accumulare, invece, adrenalina positiva staccando la spina, il giorno prima la squadra si concede addirittura lo svago del concerto di Whitney Houston. Sarà stata un’altra idea di Gullit, che in un’intervista commenta divertito: “Da non crederci, vero? Per noi era una cosa normale, impensabile per gli italiani! E quindi il giorno della finale ci siamo detti: ‘Abbiamo festeggiato, abbiamo visto Whitney Houston, ci manca solo la coppa!”. Van Basten passeggia sul prato dell’Olympiastadion di Monaco due ore prima della gara e nota uno striscione sugli spalti: “L’OTTAVO GIORNO DIO CREÒ MARCO”. Se non è un’iniezione di fiducia questa…

Calcio d’inizio 15:30. Altri tempi (che belli, sigh.), lì dove gli oranje avevano perso la famosa finale del ’74. Partita chiusa e altalenante per mezz’ora, poi al 32’, sugli sviluppi di un corner, Erwin Koeman rilancia la palla in area, Van Basten vede spiovere quel pallone dall’alto, potrebbe colpire lui di testa in rete, ma serve invece l’assist a Gullit che la scaraventa in porta con un colpo di frusta inaudito, 1-0. Con quel risultato si va al riposo. Nella ripresa, i minuti trascorsi sono meno di dieci. Arnold Mühren riceve palla sulla trequarti e fa partire un traversone che, in realtà, sembra più una palla persa. Innalza una parabola ampia, infatti, che vola lontana come a spegnersi in fallo di fondo, molto defilata rispetto allo specchio della porta. Un cross non da Arnold insomma, mancino di talento, eleganza e raffinatezza. È in quel momento, però, che gli astri si allineano perfettamente e decidono di far scoccare il momento magico. Marco guarda il pallone per aria e, come se fossimo in una puntata di Holly&Benji, ha tutto il tempo per pensare alla sua vita, si dilata come fosse un rallenty. Una cosa, più delle altre, comprende: è troppo stanco per fare giocate strane, basta, ora tira una bomba e come viene viene. Vediamo come va a finire. Il pallone prende velocità e potenza e schizza in rete da un’angolazione impossibile, scavalcando Rinat Dasaev, non certo l’ultimo dei portieri. 2-0! Rinus Michels si porta le mani al volto incredulo, la parte oranje dello stadio impazzisce. Certi gol capitano quando devono capitare. Anche Marco resta di sasso: “Cosa diavolo ho fatto?” Se lo dice lui, glielo chiedono i compagni. Eppure, quella dannata caviglia destra era un impedimento, non una risorsa. A partire dal novembre ’87, post-operazione, era fasciata rigidamente per limitarne i movimenti e guarire. Non garantisce a Marco di sprigionare tutta la forza, non lo fa muovere liberamente. Eppure, con una caviglia sana, forse, quel gol non sarebbe mai arrivato e lui stesso, in una recente intervista rilasciata a Sette, magazine del Corriere della Sera, ha ammesso com’è nato il gol del secolo degli Europei di calcio: “Segnai perché avevo la caviglia fasciata in modo rigido e mi tenne il piede fermo mentre colpivo. Un piccolo risarcimento divino. Cinque mesi dopo giocammo un’amichevole nello stesso stadio contro la Germania Ovest. I miei compagni mi fecero scommettere che lo avrei rifatto. Tirai la palla fuori dallo stadio”. Gioia e dolore, bilancio in pari. Dio si era sdebitato alla grande.

La Russia potrebbe rientrare in partita, Van Breukelen stende in modo incomprensibile Sergey Gotsmanov, in una zona dell’area laterale e innocua. Dal dischetto va Igor Belanov, “Pallone d’Oro 1986”, ma indugia troppo in una rincorsa lunghissima e Van Breukelen si fa subito perdonare, respingendogli la conclusione. Non un gran rigore il suo.

Quando l’arbitro francese Michel Vautrot dà il triplice fischio, l’Olanda è Campione d’Europa. Rinus Michels viene portato in trionfo dai giocatori, Van Basten gli toglie una scarpa per scherzo. L’artefice del successo, in fondo, era stato lui, perché capace di accorgersi quando le cose non andavano e rivedere le sue idee, con il fondamentale passaggio dal 4-3-3 al 4-4-2. Eccellente oratore, sapeva farsi rispettare. Poca tattica, molta palla, giocatori messi nella giusta posizione e si va a vincere.

Van Basten assapora l’ebbrezza del successo, ma ancora non capisce come sia stato possibile, quale fosse stato il trucco (oltre il duro lavoro in allenamento, certo) per ottenere tale risultato. Un puzzle perfetto, in cui ogni pezzo combaciava. La sua capacità d’isolarsi, di concentrarsi sull’obiettivo e, in qualche modo, di tenersene anche alla giusta distanza era stato probabilmente la chiave vincente. Si sentiva stanco e spossato, come la vittoria di uno Slam dopo cinque ore di partita. Ma anche euforico, una liberazione per lui, che finalmente aveva potuto dimostrare il proprio valore, con cinque reti in cinque partite e tre assolutamente decisive. Dopo un anno e mezzo di calvario. E pensare che Cruijff gli aveva detto di non partecipare. Poi, però, avrebbe voluto portarselo al Barcellona. Ma Marco Van Basten declina. C’è solo una squadra, il Milan e lì ancora non avevano visto cosa era in grado di fare il Cigno di Utrecht.