Domingo aveva forza d’animo, caparbietà, carattere da vendere, quando accelerava non lo prendevi più. E sapeva anche far gol, tanto che l’Inter lo utilizzò come centravanti. Angelo Domenghini è stato una delle ali destre più forti, ma più sottovalutate dai critici futuri della storia del calcio italiano.
Nel cuore di tutti i bergamaschi prima dei miracoli di Gasperini, prima ancora delle notti magiche di Mondonico, c’era stato il crazy moment di quelli dell’Atalanta di Tabanelli. Che vinse, contro ogni pronostico, la Coppa Italia del 1963 ai danni del Torino di Lido Vieri, Ferrini, Danova, Rosato e Peirò. Quella della figurina introvabile del portiere Pizzaballa e del danese Nielsen. E a rendere tutto questo possibile fu proprio il bergamasco doc Domenghini, con una tripletta in finale che è ancora oggi uno dei vertici più alti, in termini di prestazione agonistica, raggiunti da un calciatore italiano. Soltanto Giuseppe Giannini, trent’anni più tardi con la Roma, riuscirà ad eguagliarlo con un tris in finale, sempre ai danni del Torino, anche se su calcio di rigore e ininfluente per vittoria finale.
È il 2 giugno 1963 di una primavera inoltrata che, per il caldo che c’è, si veste già da estate, si gioca sul campo neutro del Meazza di Milano. In finale ci sono Torino e Atalanta, che in semifinale si sono sbarazzate di Verona e Bari. Il pronostico è tutto in favore dei più esperti granata, ma quel giorno a San Siro, sul terreno di gioco, saranno i nerazzurri gli assoluti protagonisti della partita. Sbloccata già al 4’: punizione tesa del danese Nielsen verso il secondo palo, Domenghini sbuca alle spalle di Poletti ed incorna di testa sotto la traversa il gol del vantaggio. In apertura di ripresa il secondo: lancio in area di Veneri, Magistrelli fa un sombrero a Buzzacchera e, ancora una volta, s’inserisce Domenghini con un sinistro al volo che finisce in rete. Partita in tasca, c’è gloria per Pizzaballa che fa Spiderman su un sinistro al volo di Hitchens e, a 9’dalla fine, l’assolo di chitarra di Domingo: finta il cross e si accentra, calcia una prima volta e viene murato, riprende la palla e scarta in uscita il portiere Lido Vieri, sì lui. Quello che sognava di andar per mare e che stava per imbarcarsi come mozzo su un mercantile che da Genova andava in Brasile. E meno male che lo chiamò il Torino. Superato l’ostacolo, a Domenghini non resta che scaraventare in porta tutta la sua rabbia e la foga di quell’azione irresistibile. Tripletta. Il 3-1 lo firma Ferrini, un gol di contorno, dopodiché è festa a San Siro, l’Atalanta ha vinto la sua prima Coppa Italia. Erano anni di miracoli quelli, economici, sociali, sportivi. Basti pensare che l’anno prima il trofeo se l’era aggiudicato il Napoli, che giocava in Serie B!
“Pronostico a sfavore, ma sul campo abbiamo giocato meglio noi, con grande cuore e attenzione e un bel gioco. Alla fine siamo stati premiati, io per primo con l’unica tripletta della mia vita”.
Angelo Domenghini nasce il 25 Agosto del 1941, in piena Seconda Guerra Mondiale, tra bombe, rastrellamenti e deportazioni nei lager nazisti. Per forza doveva essere rapido e sgusciante, ha imparato fin dalla culla come sfuggire al nemico e ai pericoli e l’ha traslata, in maniera decisamente più innocua, su un campo di calcio. Di se stesso Domingo ricorda: “Facevo diventare tutti matti. A quattordici anni ero un furfantello. Rubavo la frutta ai contadini e quelli mi inseguivano fino a casa, fino all’osteria dove lavorava mio padre. E allora i miei giù botte. Papà tornava a casa tardi, mi svegliavo, lui mi guardava e mi diceva che non avrei mai combinato niente di buono. E giù botte, ancora”.
I suoi primi passi in Serie A li muove a 20 anni, con la maglia con cui è cresciuto, quella a strisce verticali nere e azzurre della Dea. Non prima di aver fatto il suo bravo turno in fabbrica la mattina, alla Magrini come elettrotecnico. Il 4 Giugno del 1961 entra in campo contro l’Udinese.
Dalle Alpi Orobie alla Madonnina, il 1964 è l’anno del salto di qualità, quello nella Grande Inter del mago Helenio Herrera. Campione d’Europa in carica. Sulla destra c’è Jair, non certo l’ultimo degli arrivati e il Domingo deve adattarsi. E lo fa benissimo. Gioca dove il mago lo vuole, mezzala o centravanti va bene comunque. Segna 9 gol il primo anno, sfruttando l’impossibilità di Peirò di giocare in campionato, per via della regola dei due stranieri in campo. Nelle gerarchie primeggiano Jair e Suarez. Farà ancora meglio l’anno successivo, da titolare stavolta, centrando il bersaglio 12 volte in 31 presenze. Con l’Inter vincerà due campionati, due Intercontinentali e una Coppa dei Campioni.
Benché inscatolato nelle rigide logiche di una squadra professionistica, tra le più gloriose, il suo carattere ribelle giovanile ogni tanto esce dai confini. E una volta sta per costargli veramente caro. Una notte dell’aprile del 1965, infatti, la sua Giulietta va a sbattere contro un’altra auto. Angelo sembra in condizioni gravi, ma per fortuna è solo il braccio ad aver subito le conseguenze, con una lamiera ed un vetro conficcatisi nella carne. La lunga degenza fa temere dure ripercussioni dalla società: non solo il posto in squadra perso, ma anche una multa salata e, chissà, magari una cessione dolorosa. Peppino Prisco, che era saggio già allora, lo graziò: “Punirlo? S’è già punito da solo”.
Al di là delle intemperanze, quel fascio di nervi si era guadagnato già da tempo le attenzioni di Edmondo Fabbri per la Nazionale, con la quale esordisce a 22 anni, quando è ancora all’Atalanta. L’occasione, però non è delle più fortunate. È il 10 novembre 1963 e all’Olimpico c’è da recuperare il 2-0 subìto dall’URSS a Mosca nell’andata degli ottavi delle qualificazioni ad Euro 1964. Non si va oltre l’1-1 e l’Italia viene eliminata tra mille critiche e accuse pesanti al povero Pascutti, che si è fatto espellere a Mosca.
È tra il 1967 ed il 1970 che Domenghini scrive pagine importanti con la maglia della Nazionale. Firma a Napoli uno dei due gol-qualificazione per la fase finale gli Europei del ’68 contro la Bulgaria. Nella rassegna giocata e vinta in Italia l’anno dopo è assoluto protagonista, il deus-ex-machina che risolve ogni difficoltà sul cammino degli azzurri. Nella partita della famosa “monetina”, la semifinale del San Paolo contro l’URSS, Domingo è l’unico che dà forza nei 120’ al gioco dell’Italia, si propone, dialoga con i compagni, recupera palloni e centra anche un palo clamoroso, che avrebbe potuto risparmiarci l’ansia da sorteggio finale.
Ci garantisce il return-match in finale contro la Jugoslavia a 10’ dalla fine della prima sfida, mal giocata dagli uomini di Valcareggi, con una punizione che buca la barriera a trafigge Pantelic. Due giorni dopo, è sempre suo il tracciante che trova i piedi di Gigi Riva, per il gol che apre le marcature ed il primo trionfo europeo dell’Italia sotto il cielo di Roma.
Come da suo carattere, sta lì, buono e taciturno finché vuole, mansueto. Ma, quando scocca la scintilla, accelera improvvisamente e non ce n’è per nessuno. Terzini, centrocampisti, contadini, ortofrutticoli, tutti scansati nella vita con elastica nonchalance.
Tutti i successi con l’Atalanta e l’Inter non valgono, però, quanto riesce a fare, non certo da solo, con la maglia del Cagliari. E pensare che in quell’isola di pastori e sequestratori proprio non ci voleva andare, lo ammetterà lui stesso anni dopo: “Sono della provincia di Bergamo, avevo fatto quattro anni di Atalanta e cinque di Inter: non volevo andare così lontano da casa. Oggi passo 6 mesi a Liscia di Vacca, vicino a Porto Cervo, in Costa Smeralda, dove mi sono costruito una casa, e 6 al mio paesello d’origine, Lallio. I sardi non sono gente facile ma, se diventi loro amico, ti danno tutto: l’importante è non sgarrare, non prenderli in giro. Questo è il posto più bello del mondo, con un mare migliore che alle Maldive. Non ti fa più andar via”.
L’idillio con l’Inter si era spezzato. Durante una gara interna con il Verona, in cui pure aveva segnato, il pubblico lo fischiò, lui reagì prima a parole e poi scagliando un pallone in fallo laterale, pretendendo la sostituzione. Nei giorni successivi la moglie del presidente Fraizzoli peggiorò la situazione, dichiarando di preferire Corso per dieci minuti che Domenghini per un’ora e mezza. La corsa e la dedizione alla causa, evidentemente, non bastavano. Apriti cielo. Il Domingo si vendica alla presentazione della squadra nell’estate successiva, mandando a quel paese pubblicamente sia il presidente sia la moglie. E lì, a quel punto, s’inserisce il dg dei sardi, Andrea Arrica, che lo strappa ai nerazzurri insieme a Poli e Gori, più 600 milioni, per “regalare” Boninsegna all’Inter. Una mossa che si rivelerà fondamentale per la costruzione dello scacchiere di Manlio Scopigno, demiurgo geniale di quel Cagliari, tutto sigarette, whisky e libero arbitrio.
“Scopigno non parlava, bisbigliava, non ordinava, responsabilizzava. Maestro di calcio, geniale, bravo soprattutto a non farci sentire la pressione per l’impresa che stavamo portando a termine”
In quell’undici rossoblu, dove ogni nota suona sul tasto giusto del pianoforte, Domenghini compone la falange offensiva insieme a Nenè, Greatti, Gori e Gigi Riva, il panzer che abbatte tutte le porte. A Vicenza silura il suo ex-portiere Pietro Pianta con una splendida sforbiciata spalle alla porta. Un gol da figurine Panini tanto quanto la famosa rovesciata di Parola. E sapete chi glielo dà il pallone giusto, con i giri giusti, all’altezza giusta per poter compiere quell’acrobazia? Lasciamo stare va, avete già capito…
Partners in crime in campo, fuori amici sì, ma ognuno con i propri interessi: “Riva aveva il suo giro di compagni pescatori – spiega il Domingo – io me la facevo con i cacciatori. Ma dovevo starci attento, perché non erano abili come me: ogni volta, per sbaglio, sparavano alla mia civetta. Tutti ricordano la partita a Torino contro la Juve quell’anno come decisiva, ma a me torna in mente il 2-0 di Brescia, vincemmo nonostante l’espulsione di Nenè. Fu quella partita a darci la convinzione che avremmo potuto conquistare lo Scudetto”.
Due sole sconfitte in quel campionato, portato a termine con due punti di vantaggio sulla Juventus e il 12 Aprile 1970 è festa grande allo Stadio Amsicora, dove Scopigno assiste dalla tribuna, perché si è fatto squalificare cinque mesi prima a Palermo: aveva suggerito al guardalinee un uso più ricreativo della bandierina. Uno scudetto inatteso, un miracolo sportivo scolpito nella pietra del calcio italiano e che quest’anno ha festeggiato il suo cinquantesimo anniversario. Un’impresa titanica, costruita con l’intelligenza e non certo con le lire. Quella squadra darà sei giocatori alla Nazionale in partenza per Messico ’70 e potrebbero essere sette se Tomasini non si fosse infortunato.
“Tutto mi sarei aspettato nella vita, tranne che vedere Niccolai in mondovisione”. (Manlio Scopigno)
Domenghini, ovviamente, ne fa parte, anzi, possiamo dire che sono lui e Riva a portare la squadra ai mondiali. C’entra ancora una volta lo stadio di Napoli, del resto un San Paolo non può che essere terapeutico per l’ego di un Angelo. Il 22 Novembre 1969 si gioca l’ultima e decisiva gara del girone di qualificazione contro la Germania Est. Le squadre sono appaiate a 5 punti e quello è un vero e proprio spareggio. Segna subito Sandro Mazzola, al 25’ in contropiede è micidiale proprio Domenghini, riceve l’assist di De Sisti e scarica di potenza il pallone tra il palo e il portiere. Al 36’ Domingo preme il power boost sulla fascia e mette un cross perfetto e teso in area, raccolto in tuffo plastico di testa da Gigi Riva che fa il tris. Ancora oggi “Rombo di Tuono” ricorda quel gol, insieme a quello di Vicenza, come i due più belli mai realizzati. Fossimo a MasterChef, Angelo Domenghini sarebbe un impiattatore fantastico! E, come se non bastasse, l’ala bergamasca apre anche le marcature del mondiale italiano con il gol alla Svezia, 1-0 e tre punti in tasca. Sarà l’unica marcatura degli azzurri nella fase a gironi, seguita da due clean sheet consecutivi contro Uruguay e Israele. Di fatto, quindi, è suo il primo passo che ci porterà alla partita del secolo prima e al ruolo di vice-campioni del Mondo poi. Alla fine della sua carriera, con la maglia della Nazionale accumula 33 presenze e segna 7 gol.
Il ventre della Bergamo calcistica di talenti ne ha partoriti molti e negli anni ’80 darà alla luce un’altra stella del firmamento del calcio italiano: quel Roberto Donadoni protagonista del Milan degli “Invincibili” e che, come Domenghini, saprà districarsi in più ruoli del centrocampo, venendo idolatrato da tutti gli allenatori di cui sarà alle dipendenze. Double D, Domenghini e Donadoni possiamo tranquillamente piazzarli sul podio delle ali destre più forti della storia. Insieme a loro, il romanista Bruno Conti. Il primo è stato troppo sottovalutato dai posteri e merita, invece, tutte le glorie che la letteratura sportiva è in grado di produrre. Il suo score recita: 444 partite, 111 gol, 3 Scudetti, 1 Coppa Italia, 1 Coppa dei Campioni, 2 Intercontinentali, 1 Argento mondiale. Numeri non da comprimario.
Quanto a quel Cagliari, beh… fu ed è ancora l’orgoglio di tutta la Sardegna, nonostante nessuno dei protagonisti fosse nativo dell’isola. Eppure, hanno tutti ricevuto l’abbraccio ideale di una terra che li ha accolti come figli. Otto di quegli eroi sono rimasti a vivere lì e c’è chi, se non in pianta stabile, punta lì la propria dimora nei mesi estivi. Ogni anno c’è LA reunion (anche più di una in verità) al ristorante Lo Scoglio, lo stesso frequentato da giocatori. E, come allora, offre la casa. Perché il popolo sardo sa essere riconoscente con chi ne esalta il prestigio. E tutti sanno che, dopo quello scudetto, la loro terra non è stata più solo quella dei sequestri e dei banditi. È diventata la terra degli eroi dello Scudetto del 1970. E se quel miracolo non dovesse ripetersi mai più non sarà un problema, perché la vita da quelle parti basta prenderla “con filosofia”. Domenghini ne ha fatto parte. Come sempre, di corsa.