Primo Piano

Il calcio nell’era Covid-19 comincia dalla Germania. E ci avvicina (con paura) al momento della verità

I mesi delle ipotesi, delle proposte e controproposte, delle sfide a colpi di dichiarazioni dalla distanza tra chi tremava all’idea di tornare in campo e chi era disposto a tutto pur di salvare la stagione, sono finiti. Il calcio, almeno in una delle massime competizioni europee, riparte ufficialmente, non casualmente dalla Germania, uno dei Paesi riuscito a resistere in maniera meno drammatica del previsto all’onda impetuosa del Covid-19 e che, soprattutto, molto prima di altri ha dato il via a una ritorno graduale alla normalità.

Bundesliga e Zweite Liga riprendono da dove si erano fermate, precisamente dalla 26a giornata di campionato, aprendo così in maniera ufficiale la fase della verità: quella in cui scopriremo se almeno il calcio riuscirà a sopravvivere, riuscendo a salvare un importante settore economico di tanti Paesi. Se gli stop definitivi di Olanda, Belgio e Francia sembravano aver gettato un’ombra di generale sfiducia su una possibile ripresa in Europa (esclusa la Bielorussia, ma per cui vanno fatti ragionamenti a parte legati a un Governo fortemente oppressivo), ora è la Germania a provare a illuminare la strada, rinvigorendo il partito di chi prova a non darsi per vinto per salvare la stagione.

In questo percorso che ci sembra ancora così tortuoso e ricco di zone d’ombra, la Federcalcio tedesca si presenta come la guida dietro cui proveranno a muoversi poi tutti gli altri, più o meno a tentoni. Un ruolo che avrà gli inevitabili benefici d’onore di chi ha avuto il coraggio di tracciare la via, un po’ grazie alle capacità personali e un po’ per il perfetto incastrarsi di circostanze. Essere il leader significa avere gli occhi del mondo addosso, un enorme vantaggio in termini anche economici se pensiamo a quante televisioni e quanti milioni di tifosi affamati di calcio proietteranno la propria attenzione sulle gare in programma (Rummenigge ha fatto capire negli scorsi giorni di essere del tutto a conoscenza di questo aspetto); ma anche una grande responsabilità, perché a seconda di quanto accadrà in Germania, negli altri Paesi potrebbe spostarsi in maniera definitiva il peso sulla bilancia che contrappone ripartenza e stop definitivo.

Del “modello tedesco” ne abbiamo sentito parlare tutti in continuazione, soprattutto in questa settimana. Facciamo come loro e potremo uscirne bene, ci hanno detto. Usiamo il loro protocollo, perché è l’unico che può funzionare. Un modello che, però, resta pur sempre ancora controverso: ha funzionato nel caso di un giocatore del Werder Brema, messo in isolamento per due settimane dopo la positività di un familiare, ma che ha pur sempre già mostrato una falla, legata all’obbligata quarantena imposta a tutta la squadra della Dinamo Dresda. Con quest’ultima che non solo non giocherà questo week-end contro l’Hannover, ritrovandosi costretta a recuperare una gara in più in avanti con un programma già intenso; ma significa rimanere fermi complessivamente per due settimane anche con gli allenamenti, mentre le rivali guadagnano un ulteriore vantaggio sul piano fisico, tecnico e mentale. Un ostacolo simile a campionato già ripartito sarebbe obiettivamente un’ingiustizia, oltre a minare la credibilità dell’intera stagione.

La Germania fa cominciare ufficialmente il calcio nell’era Coronavirus, almeno per chi ha vissuto una fase più o meno breve di lockdown. Partite con stadi a porte chiuse, squadre che ritornano in campo dopo qualche settimana di allenamenti in campo e un lunghissimo stop che non si vive nemmeno in estate, controlli sanitari continui, la paura del contagio che si rifletterà sugli atteggiamenti in campo. Insomma, sarà uno spettacolo diverso e, personalmente, ho un po’ paura di quello che vedrò oggi. Ho timore di non riconoscere più il calcio, di vedere qualcosa di tanto, troppo dissimile alla sua versione originale. Ma, soprattutto, vivrò con la speranza che queste gare non si trasformino in nuovi, piccoli focolai che possano mettere in pericolo la vita degli addetti ai lavori e alle rispettive famiglie, come accadde nel vergognoso Valencia-Atalanta di qualche mese fa.

Ma, soprattutto, la speranza è che non si crei un’illusione generale che se funziona in Germania, allora sarà così anche altrove. Ogni Paese dovrà fare necessariamente i conti con quanto ha vissuto, ma anche con il momento in cui si ritroverà al momento di decidere di riprendere a giocare. Per questo parlare di “modello tedesco” non ha senso, in una situazione in cui non vi è parità di condizioni. Sarà necessario prendere strade individuali, con scelte legate a un reale ascolto della voce del proprio Paese. Perché la ripresa del calcio non sancirà il ritorno alla normalità. E la speranza è che le conseguenze della scelta della Federcalcio tedesca non ce lo confermino tra qualche settimana.