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Verso #Euro2020 – 1980: stragi, attentati e calamità, ma tutte le strade della Germania portano a Roma. E il bis è servito

Nel 1977 l’UEFA, governata dall’italiano Artemio Franchi, assegna la sesta edizione dei campionati europei di calcio… guarda caso… all’Italia che, dunque, torna ad ospitare una fase finale dopo appena dodici anni. E già questa è una novità, perché mai prima d’ora la sede è stata scelta a tavolino prima che comincino addirittura le qualificazioni. E infatti è proprio l’intera formula dell’Europeo a cambiare, con una squadra ospitante che è ammessa di diritto e, per la prima volta, altre ben sette formazioni che devono uscire dai gironi di qualificazione e che vengono divise in due gruppi da quattro squadre. Non ci saranno né quarti né semifinali, unicità di questa edizione degli europei e che mai più si verificherà. La finale uscirà dalle vincenti dei due gironi mentre, per le seconde qualificate, ci sarà il contentino della finale per il terzo e quarto posto. Una partita poco più che amichevole e che, infatti, verrà giocata e subito depennata.

L’organizzazione degli europei per l’Italia diventa un’occasione importante per ripulire in vetrina l’immagine di un calcio che, in verità, se la passa malissimo. Alle 5 di pomeriggio del 23 Marzo 1980, infatti, i carabinieri entrano negli stadi delle partite di Serie A e Serie B per arrestare numerosi calciatori, colpevoli di aver truccato partite in cambio di denaro per favorire un giro di scommesse clandestine. Dallo stadio alla galera, in manette finiscono, tra gli altri, gente del calibro di Savoldi, Dossena, Agostinelli, Damiani, Paolo Rossi, Pino Wilson, Giordano, Manfredonia, Albertosi. Le squalifiche sono una mannaia terribile: sei anni per Pellegrini, cinque per Cacciatori e Della Martira, quattro per Albertosi, tre e mezzo per Petrini, Savoldi, Giordano e Manfredonia, tre per Wilson e Zecchini, un anno e due mesi per Cordova, un anno per Morini, sei mesi per Chiodi, cinque per Negrisolo, quattro per Montesi, tre per Damiani e Colomba. Lazio e Milan finiscono in Serie B!

Paolo Rossi becca due anni. È la pena che fa più rumore, perché il “non ancora Pablito” è l’uomo-copertina del campionato in quel momento. Non tanto per prodezze sul campo, a quelle siamo già abituati, ma per una rivoluzione storica che riguarda il marketing. Il Perugia in cui gioca, infatti, per potersi permettere il suo ingaggio ha stretto un accordo con il Pastificio Ponte, che ha elargito i soldi necessari per l’attaccante in cambio di visibilità: il logo della Pasta, infatti, compare per la prima volta sul petto delle divise dei calciatori durante le partite, in realtà “mascherato” da fornitore tecnico (Ponte Sportswear) per ovviare ai regolamenti federali in vigore all’epoca, che ancora vietavano simili accordi pubblicitari. Il Perugia è così la prima squadra della storia a introdurre gli sponsor sulle divise di gioco, ma l’aspetto comico della vicenda è che lo stesso Rossi, già vincolato da un precedente contratto personale e sempre nel settore agroalimentare con la Polenghi Lombardo, nell’occasione fu l’unico giocatore biancorosso a non poter esibire lo sponsor sulla maglia. Così come nel ’74 il suo illustre predecessore, Johan Cruijff, si era fatto togliere una delle tre righe nere Adidas dalla maglia arancione, essendo lui testimonial dell’arci-nemica Puma.

E l’Italia, che pure partirebbe favorita per essere non solo la squadra di casa, ma anche quella che due anni prima ha incantato il mondo con il suo calcio ai mondiali vinti dall’Argentina, si ritrova senza la sua coppia d’attacco principale, Paolo Rossi e Bruno Giordano. Il primo avrà modo di rifarsi nell’’82, ma forse avete già sentito quella storia.

Se il calcio se la passa male, tutt’intorno il clima non è migliore. Il nefasto decennio degli anni di piombo è agli sgoccioli, ma i suoi echi si fanno ancora sentire e forte. E una regione in particolare, la Sicilia, sta per vivere un triennio terribile, quello 1981-1984, in cui la Seconda guerra di mafia semina terrore e orrore e porta all’egemonia finale dei corleonesi capeggiati da Totò Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella, al devastante prezzo di un numero di morti che oscilla tra i 400 e i 1000 e la precisione non possiamo averla per ovvi motivi. Siamo solo all’epifania quando il Presidente democristiano della Sicilia, Piersanti Mattarella, viene assassinato. Stava tentando di costituire una giunta con la partecipazione del partito comunista. A febbraio è Vittorio Bachelet, vicepresidente del CSM, a cadere per mano terroristica, mentre il 28 maggio è il turno del giornalista del Corriere della Sera, Walter Tobagi, ucciso a Milano dalla Brigata 28 Marzo di Marco Barbone, che successivamente verrà condannato per quell’omicidio. Aveva esploso lui il colpo di grazia al cuore.

L’evento più eclatante, quello che sconvolgerà una nazione intera e che farà da spartiacque tra passato e futuro, però, è datato 2 agosto, ore 10:25 del mattino. È un sabato afoso in Emilia e tantissime persone, stanche e disidratate da una dura settimana di lavoro, si apprestano a prendere il treno alla stazione di Bologna, per recarsi nelle vicine località balneari della Romagna o delle limitrofe Marche. Le ferie, finamente. Il fragore della bomba che esplode nella sala d’attesa della stazione è così devastante che l’eco di quel boato arriva fino a Modena Sud e causa 85 morti e 203 feriti. Una strage. Il più grave atto terroristico mai avvenuto nel Paese dal secondo dopoguerra. Eppure l’epoca di piombo non era stata mica da ridere: strage di Piazza Fontana, attentati sui treni delle Ferrovie dello Stato, strage di Piazza della Loggia, strage dell’Italicus, rapimento, sequestro e assassinio di Aldo Moro. Un’ecatombe, eppure Bologna fu più di tutte queste messe insieme. Indicata come una delle ultime azioni atroci della strategia della tensione. Una linea politica estremista, rossa e nera, che aveva cercato per più di un decennio di destabilizzare, invano, una classe politica di quarant’anni. Ciò che la pistola non riuscì a fare (o fece solo in parte), verrà invece realizzato senza spargimento di sangue (o quasi, se non consideriamo i suicidi) in diverse aule di tribunale nel 1992. Una storia che vi racconteremo poi.

Sono altri tre i fatti che caratterizzeranno quel triste anno:

  • Il 4 maggio a Lubiana muore il maresciallo Josip Broz Tito, il presidente-dittatore della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia dal 1953. È una morte importante, perché segna il lento inizio della disgregazione di uno status quo che nei Balcani veniva considerato immutabile: 6 Repubbliche, 5 Nazioni, 4 lingue, 3 religioni, 2 alfabeti e UN Tito. E sarà quello l’inizio e la parte integrante del racconto di Euro ’92, un’edizione tra le più belle e sorprendenti che qui, ovviamente, non vi anticipiamo.
  • il 27 giugno alle 20:59 scompare dai radar, a 40 miglia nautiche a nord dell’isola siciliana di Ustica, un volo di linea DC9-870 della compagnia Itavia, che da Bologna stava raggiungendo Palermo. Il volo precipita in mare, dopo esser stato colpito da un missile e perderanno la vita 81 persone, tra equipaggio e passeggeri. La sentenza n.1871 depositata il 28 gennaio 2013 dalla Terza sezione civile della Suprema Corte ha condannando lo Stato Italiano al risarcimento dei familiari delle vittime. Di vera e propria giustizia non si è trattato, però, perché sono passati ormai quarant’anni e, nonostante le tante ipotesi, ancora non è stata trovata la mano che fece partire quel missile. Lanciato da un aereo militare francese il quale credeva che a bordo ci fosse il leader libico Gheddafi? Frutto di uno scontro ravvicinato sui cieli di Ustica tra due F-14 francesi o americani e un Mig libico? Forse non lo sapremo mai, quel “muro di gomma” resiste oggi, come allora, in modo insopportabile.
  • Il 23 Novembre la regione appenninica della Campania conosciuta come Irpinia, terra di vini, olii, formaggi e nocciole, viene sconvolta da una scossa di magnitudo 8.9 pari al decimo grado della scala Mercalli e provoca circa 3000 morti, oltre 9000 feriti e più di 280000 sfollati, più un quoziente incalcolabile di danni al territorio tra Campania e Basilicata. L’anno successivo, per raccogliere fondi a sostegno di quella emergenza, la nazionale italiana disputerà un’amichevole di beneficienza contro un Team Europa composto dai migliori giocatori del continente e allenato dal Ct della Germania, Jupp Derwall, di cui vi stiamo per raccontare.
  • Special Guest John Lennon, il Beatle che con la sua Imagine, da solista, aveva ispirato i cuori del mondo a ridosso di Euro ’72: nel 1980, invece, dagli studi di registrazione della Hit Factory di New York esce il suo nuovo album, Double Fantasy, pubblicato in novembre. Poche settimane dopo, la sera dell’8 dicembre alle 22.51, al termine di un pomeriggio trascorso al Record Plant Studio, John si accinge a rincasare con la moglie. All’ingresso del Dakota Building sulla 72ª strada, nell’Upper West Side di Manhattan, un giovane di 25 anni, ex-guardia giurata di stanza a Honolulu e con diversi problemi mentali e di tossicodipendenza, tale Mark David Chapman, lo saluta esclamando “Hey, Mr. Lennon” e gli esplode contro cinque colpi di pistola, di cui quattro vanno a segno. Lennon riesce a malapena a fare ancora qualche passo mormorando “I was shot… (mi hanno sparato)”, prima di cadere al suolo. Inutile la corsa al Roosevelt Hospital, la morte viene dichiarata ufficialmente alle ore 23:15. Chapman, ossessionato al punto da sposare un’americana di origini giapponesi che gli ricordava Yoko Ono, sosterrà che il suo idolo aveva tradito gli ideali della propria generazione e doveva essere punito. Il portiere del palazzo, inorridito, gli urla contro e gli chiede se si rende conto di ciò che ha appena fatto. Chapman, seduto sull’asfalto, tira fuori un libro, “Il giovane Holden”, e gli risponde come fosse alla fermata dell’autobus: “Si, ho sparato a John Lennon”. Sì, ha tolto al mondo il respiro, il cuore e la mente geniale di una delle stelle più luminose del firmamento della musica mondiale.

In questo contesto non certo esaltante, il grande Artemio Franchi prova a regalarci una gioia con l’organizzazione degli Europei. Il resto, deve farlo la squadra e, come detto, i presupposti sono incoraggianti. Appena due anni prima, nel 1978, avevamo dato spettacolo al mondiale argentino dove, pur piazzandoci soltanto quarti, eravamo stati la squadra più bella e divertente. Giovani talenti come Scirea, Cabrini, Tardelli e Rossi avevano preso il posto dei vice-campioni del mondo di Messico 70 e garantivano alla nazionale azzurra un luminoso avvenire, come poi tale sarebbe stato di lì a breve.

Quattro le sedi designate: Torino, Milano, Roma e Napoli. Ci sono i campioni in carica della Cecoslovacchia con il genio del cucchiaio Antonin Panenka, che hanno eliminato la Francia di monsieur Platini. C’è la solita Germania Ovest del nuovo centravanti-fenomeno Rummenigge, una sorprendente Grecia (lo sarà ancor di più nel 2004), l’Olanda che ci aveva tolto la finale del mondiale due anni prima, il Belgio di Eric Gerets, gli inglesi dominatori della Coppa dei Campioni di quegli anni e freschi vincitori, infatti, con il Nottingham Forest di Brian Clough per la seconda volta consecutiva. Infine, la Spagna di Arconada e Santillana. Un bel panorama calcistico per l’epoca.

Nonostante le assenze forzate dei due “scommettitori” fraudolenti, il parco attaccanti azzurro è comunque di primo piano: Altobelli, Bettega, Causio, Graziani e Pruzzo. In porta c’è Zoff, in difesa comandano Collovati e quel gentleman di Scirea, in mezzo al campo dirigono Oriali e Tardelli, ad Antognoni il compito di scoccare la scintilla.

Così come si era concluso l’europeo del 1976, quello dell’’80 ricomincia, con la sfida tra Germania Ovest e Cecoslovacchia. L’11 giugno, nella gara inaugurale di Roma, i tedeschi regolano di misura i campioni uscenti cecoslovacchi proprio con un acuto di testa di Karl-Heinz Rummenigge. Nell’altra gara del girone, è un rigore dell’olandese Kist, invece, a regolare i conti contro l’esordiente Grecia.

Il giorno dopo tocca a noi, l’avversario è la Spagna. A San Siro la partita è equilibrata, gli iberici giocano meglio per larghi tratti e Jesús Satrústegui si vede annullare anche un gol. Juanito su punizione  al 70′ colpisce invece la traversa. Resistiamo e portiamo a casa il pari, mentre a Torino, nella sfida che ci ha preceduto, anche Belgio e Inghilterra hanno impattato, ma 1-1 con i gol di Ray Wilkins e Cuelemans. Quest’ultimo ha appena ricevuto un’allettante offerta dal Milan, ma si sente ancora troppo giovane non pronto per quella platea e declina gentilmente l’offerta. Se ne pentirà amaramente e giocherà tutta la carriera in Belgio con le maglie di Lierse e Bruges.

Nella seconda giornata allo stadio San Paolo di Napoli sale in cattedra il tedesco Klaus Allofs che, con una tripletta, stende l’Olanda di un Cruijff al crepuscolo, almeno con la maglia oranje. La Germania è nuovamente in finale, per la terza volta consecutiva nelle tre edizioni a cui aveva preso parte. Allofs era la punta di diamante del Fortuna Düsseldorf che l’anno prima aveva spaventato il Barcellona nella finale di Coppa delle Coppe, portandolo ai supplementari per poi soccombere 4-3 in una partita bellissima. Suo il gol del momentano 1-1, risposta immediata all’8’ al vantaggio blaugrana di Sanchez al 5’. Nell’altra partita si rivede Antonin Panenka, che apre le marcature nel 3-1 dei cecoslovacchi alla povera Grecia, già eliminata.

A Milano, il Belgio mette la freccia per la finale ed elimina la Spagna 2-1, gol di Gerets e Cools al cospetto dell’inutile punto di Quiri. Gerets sarà sì, invece, un giocatore del Milan tre anni più tardi, quando i rossoneri tornano per la seconda volta in Serie A dalla cadetteria e scelgono lui e Luther Blissett come stranieri. Tocca a noi replicare al Comunale di Torino contro l’Inghilterra, Keegan fa paura e durante la partita ispira tutte le azioni più pericolose della squadra allenata da Ron Greenwood. Lo 0-0 non si sblocca fino al 79’, momento-chiave del match: Antognoni serve Claudio Gentile sulla sinistra, Phil Neal fallisce il tackle facendo scattare Graziani e il cross in area rasoterra per Tardelli è perfetto, perché il centrocampista in allungo insacca dalla corta distanza. C’è poco tempo per reagire, ma Keegan ci provoca ancora un brivido lungo la schiena, quando una sua rovesciata all’ultimo minuto impegna severamente Zoff e, sulla respinta, per poco Kenny Sansom non ci punisce. La vittoria la portiamo a casa, ma serve battere il Belgio, che ha una migliore differenza reti, per poter accedere alla finale contro i tedeschi.

Il 18 Giugno, allo stadio Olimpico di Roma, dirige questo spareggio vero e proprio il portoghese Garrido e sarà protagonista in negativo. È una sfida sportiva trasversale, quella tra Italia e Belgio, che si riversa anche sull’asfalto delle strade del Giro d’Italia di ciclismo. A partire dal 1968, infatti, i corridori belgi avevano vinto per ben 7 volte la corsa rosa, in particolare con Eddy Merckx, che si impose 5 volte sulle strade italiane e altrettante volte conquistò il Tour de France. Nel calcio, in teoria, dovremmo essere noi “i cannibali”. Il CT belga Guy Thys, però, ha portato a questi campionati una squadra tosta ed efficace, che si conferma un blocco compatto come nel resto del torneo. Siamo noi a dover segnare, ma sono i diavoli rossi a sfiorare il vantaggio e Dino Zoff deve fare ancora una volta gli straordinari su Renquin, Mommens e Vandereycken. Il suo opposto collega, Jean-Marie Pfaff è altrettanto impermeabile e a farne le spese è soprattutto Ciccio Graziani che, imbeccato da Causio, si vede respingere per ben due volte a distanza ravvicinata la conclusione a botta sicura. Nel secondo tempo Garrido non vede un clamoroso bagher da pallavolo in area di Meews e, nonostante le vibranti proteste dei giocatori azzurri che lo accerchiano, non accorda un calcio di rigore che ai tempi odierni del VAR sarebbe stato assegnato con tanto di ipotetica matita blu sulla testa del fischietto portoghese. I belgi mantengono i nervi saldi e al 90’ il pari è salvo. Per la prima volta nella storia, sarà finale. Un’occasione di rivincita contro la Germania, per quell’edizione giocata in casa otto anni prima e infrantasi in semifinale contro quel cecchino infallibile che era Gherd Müller.

All’Italia non resta che l’inutile finale per il terzo e quarto posto a Napoli, che perdiamo anche ai calci di rigore contro la Cecoslovacchia. Decisivo l’unico errore di Fulvio Collovati, in una serie infinita di 18 tiri dal dischetto.

Così, il 22 Giugno 1980 alle ore 20:30 scendono in campo, sul prato dello Stadio Olimpico di Roma, la Germania Ovest ed il Belgio davanti a 47.864 spettatori, divisi quasi equamente tra crucchi e fiamminghi. Un fiasco, se consideriamo che l’Olimpico può contenerne più di 80mila. Ma lo scandalo scommesse e l’assenza dell’Italia all’ultimo atto avevano incisio prepotentemente. Dopo il fallimento di Argentina ’78, divenne Ct in Germania l’assistente di Schön, Jupp Derwall, che impostò la sua squadra nel segno di tre principi: qualità e spregiudicatezza. E infatti, la Germania è la squadra con l’età media più bassa di quelle ai nastri di partenza. Karl-Heinz Rummenigge e Hans-Peter Briegel hanno 24 anni, Klaus Allofs 23, Hansi Muller 22 e Bernd Schuster non ne ha ancora compiuti 21. I risultati si videro subito, sotto la sua guida i panzer tedeschi ottennero due record: quello del maggior numero di partite giocate senza una sconfitta (23 e quello del maggior numero di vittorie consecutive (12). Per quella partita, Derwall imposta Kaltz e Briegel frecce laterali tranquillizzate da un trio difensivo composto da Dietz, Stielike e Förster. In porta c’è Schumacher. A centrocampo la parola d’ordine è tecnica, Schuster coopera con Hansi Müller, entrambi sanno dare un delizioso tu al pallone. Il tridente offensivo è pura adrenalina, Rummenigge fa da falso nueve, ma in più ci mette il fisico e Hrubesch e Allofs, più decentrato, lo accompagnano con velocità e destrezza. Il Belgio si oppone con un nordico 4-4-2 in cui Vandereycken è la mente e Cuelemans e Van der Elst sono le braccia armate.

Dopo 10 minuti la gara si sblocca, un pallonetto dolce di Schuster, in rapido scambio con Allofs, mette sul destro di Hrubesch la palla dell’1-0, una conclusione potente e centrale, forse non irresistibile, ma che buca i guanti di Pfaff e s’insacca. Il portiere belga deve poi sventare le conclusioni di Allofs (che aveva saltato tre difensori) e Schuster. Dall’altra parte, François Van der Elst cicca la mira su assist ingegnoso di Cuelemans. Vandereycken esalta le doti di portiere di Harald Schumacher. Il Belgio non si dà per vinto e riesce a pervenire al pareggio ad un quarto d’ora dalla fine su calcio di rigore: Van der Elst trova lo spazio e viene trattenuto da Uli Stielike all’ingresso in area. Il sinistro di Vandereycken spiazza Schumacher e rimette in equilibrio la partita. A due minuti dalla fine, però, gli dei del pallone sorridono ancora una volta ai tedeschi e, sul corner battuto da Rummenigge, Hrubesch prende l’ascensore e sale più in alto di tutti, anticipa Pfaff in uscita e impatta la palla di testa, mandandola in torsione da perfetto centravanti sotto la traversa. È il gol che vale il secondo titolo europeo della Germania Ovest, prima nazionale a conquistare la coppa più di una volta in sei edizioni fin lì disputate. Sotto il cielo dolce di Roma, che dieci anni più tardi regalerà a Beckenbauer e ai suoi ragazzi anche la terza Coppa del Mondo. Sempre ad un passo dall’affrontare la nazionale di casa, cioè noi azzurri, che in entrambe le occasioni avremmo potuto dar molto fastidio alle imprese teutoniche. Ma il calcio e la storia, si sa, non si fa con i se e con i ma.

Un’eccezione, però, c’è: dopo aver faticato e perso la finale di Coppa dei Campioni tre settimane prima, il 29enne Hrubesch trova spazio soltanto per l’infortunio di Klaus Fischer prima del torneo in Italia. E non spreca l’occasione per dimostrare di essere sì un “kopfball-ungeheuer” (mostro dei colpi di testa), ma, più in generale, un eccellente attaccante. Pensate un po’ “se” Fischer non si fosse infortunato…

Curiosità finale, quell’Europeo è il primo a presentare una mascotte ufficiale a rappresentazione simbolica del torneo. L’Italia scelse il personaggio di una fiaba conosciuta in tutto il mondo: Pinocchio. Quello di Collodi è il principale racconto per bambini e che in quell’epoca andava in tv grazie ad una serie televisiva, interpretata da Nino Manfredi e Gina Lollobrigida. Il burattino di legno che diventa bambino venne disegnato con un pallone sotto al braccio, il naso tricolore e un cappellino da marinaio sulla testa con la scritta Europa 80. Presentata alla stampa nell’ottobre del 1979, alla mascotte non fu inizialmente assegnato un nome ufficiale perché, come spiegò allora il presidente dell’Uefa e della FIGC, Artemio Franchi, i diritti di Pinocchio appartenevano alla Disney. Quando la Fondazione Collodi ricordò che quei diritti erano ormai scaduti da 50 anni, il comitato organizzatore di Euro ‘80 poté finalmente ribattezzare la mascotte ufficiale, “Pinocchio”.