Vivere un’onesta carriera da difensore, ma trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Incrociare sulla propria strada l’uomo che ti fa volare sulla Luna. Passare alla storia per un gol, uno soltanto e poi basta. Il momento è cruciale. Diego Armando Maradona, il re di Napoli, mette la palla a terra e dà uno sguardo ai suoi luogotenenti in area di rigore. Il suo sinistro, nel frattempo, sta già calibrando distanza e forza da impiegare per raggiungere lo scopo. In area, in mezzo alla bolgia, Marco Baroni cerca di tenersi inizialmente nelle retrovie.
È solo un inganno, non ha assolutamente intenzione di sottrarsi alla battaglia. Con gli occhi puntati verso il suo re, per carpire la traiettoria che scaturirà da quella bacchetta magica argentina. Il pallone spicca il volo, si dirige morbido, ma preciso al centro. È il momento. I tacchetti delle scarpe aiutano la falcata e agevolano polpacci e quadricipiti a prendere la rincorsa sul manto erboso e a dar forza per sollevarsi in aria. Il balzo è notevole, in un attimo il busto s’inclina leggermente in avanti, il collo dà una frustata incredibile verso destra, la calotta cranica sente il rumore della camera d’aria del pallone dall’esterno. Il sincronismo dei movimenti è perfetto. L’orbita ellittica che compie quel colpo di testa così rabbioso e determinato può gravitare solo verso la destinazione finale: la porta. Valerio Fiori, portiere della Lazio, è leggermente fuori dai pali, non si aspetta quel colpo. La palla lo scavalca e muore nel gol dell’1-0.
Il rumore del solito rollio che si determina tra lo sfregamento del cuoio a contatto con la corda della rete non è udibile, perché il frastuono che cade dagli oltre settantamila cuori del San Paolo è devastante. Sotto la Curva A, Alemao e De Napoli sovrastano di abbracci il numero 6. La partita finisce praticamente lì, i restanti 83 minuti sono pura allegoria di un successo, ballato a ritmo di tarantella sulle tribune e cantato, storpiando una vecchia canzone di Nilla Pizzi che fa: “O mama, mama, mama, o mama, mama, mama, sai perchè mi batte il corazon, ho visto Maradona, ho visto Maradona, o mamà, enamorado son”.
Alle 17:47 il signor Carlo Sguizzato da San Bonifacio emette il triplice fischio ed il catino azzurro si trasforma in una bolgia. Sugli spalti dell’antico “Stadio del Sole”, gremiti in realtà già due ore prima del fischio d’inizio, applaude anche tutta la seleccióndell’Argentina ed il ct Carlos Bilardo, ospiti di capitan Diego e già pronti per il ritiro pre-mondiale a Trigoria. Che giorno memorabile quel 29 aprile 1990, quello del secondo Scudetto della storia del Napoli in tre anni. Nessuno, alle pendici del Vesuvio, lo dimenticherà più. In pochi mesi, e soprattutto in quei miseri 7 minuti di partita, Baroni è diventato Re.
Prelevato in estate dal neo-promosso Lecce in Serie A per la cifra di 2 miliardi di lire più il cartellino di Antonio Carannante, doveva essere la riserva di Alessandro Renica, titolare indiscusso della difesa partenopea. L’eroe della rimonta in Coppa Uefa contro la Juventus ai quarti di finale della stagione precedente. Renica, però, nel segnare il primo gol della clamorosa rimonta contro la Fiorentina alla quinta giornata (da 0-2 a 3-2), accusa uno stiramento ed è costretto a farsi rilevare in quel momento da Francini. È il 17 settembre, davanti c’è tutta una stagione, ma il difensore nato in Francia ad Anneville-sur-Mer da emigranti italiani giocherà soltanto altre tre volte, contro Ascoli, Udinese e Juventus. Non verrà convocato in 18 partite su 26, le restanti 8 le guarderà dalla panchina. Per Marco Baroni, quindi, l’occasione di una vita: indossare una grande maglia, giocare per un grande pubblico, lottare per grandi obiettivi. Ma ci arriviamo per gradi.
Il Napoli, nonostante i capolavori di Baggio (il momentaneo 0-2 resterà agli annali come uno dei gol più belli della storia del nostro campionato), quella domenica riesce a prendere la vetta. Con un Maradona a mezzo servizio (con tanto di penalty fallito), appena rientrato tra i ranghi, dopo un’estate nervosissima. Pochi mesi prima, sul prato del Neckarstadion di Stoccarda, il presidente Ferlaino si rimangia la parola data a Diego di lasciarlo andar via per una vita più tranquilla. Ha ancora la Coppa UEFA in mano il Pibe e vorrebbe tirargliela in testa. L’argentino era già ferito dalla pioggia di fischi piovuta dal San Paolo il 18 giugno, durante un’inutile Napoli-Pisa alla penultima di campionato in cui si era stirato dopo 17’ ed aveva abbandonato il campo. Quelle parole, dette in quel momento di gioia, erano state la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. L’estate era diventata, così, un antipatico triangolo tra il Napoli, Maradona e l’Olympique Marsiglia, che dietro le quinte fa l’impossibile per portarselo via.
Il 16 agosto non si presenta in ritiro, il Napoli minaccia azioni legali, Diego dall’Argentina fa di tutto per mettere in cattiva luce il presidente al cospetto dei napoletani, sua vera forza del periodo partenopeo. Alberto Bigon, subentrato in panchina ad Ottavio Bianchi, deve rinunciare anche a Careca e Alemao, ancora al mare a smaltire le fatiche della coppa America vinta in casa e, perciò, si affida al “blocco italiano” nel mese iniziale. Massimo Mauro veste la 10 di Diego, Crippa abbina quantità e qualità ed un semi-sconosciuto Gianfranco Zola, pescato da Luciano Moggi alla Torres, semina guizzi e imprevedibilità, raccogliendo già il pesante testimone del fuoriclasse argentino in contumacia. Diego tornerà a Napoli soltanto il 5 settembre, stipulando una tregua che sarà destinata a non durare a lungo con il presidente Ferlaino. Tutta Italia, in quel momento, è sotto shock per la tragica morte in un incidente d’auto a Babsk, in Polonia, di Gaetano Scirea. Appena due giorni prima, 3 settembre 1989.
E ritorniamo a Baroni che, dal momento in cui si piazza sulla diga azzurra, ben si comporta, ordinato e diligente. In tutto l’anno accumula 44 presenze, di cui 33 in Serie A, 5 in Coppa Italia e 6 in Coppa Uefa. In quest’ultima competizione, il 31 ottobre al secondo turno in casa contro il Wettingen e sotto di un gol, realizza il punto dell’1-1 che dà il là alla rimonta azzurra, prima del sigillo decisivo di Mauro. Il 17 dicembre, addirittura, gli tocca l’onore di firmare su calcio di punizione il gol numero 3000 della storia del Napoli, in 73 anni di attività. Un sinistro violento, che perfora la barriera e non lascia scampo al povero Nello Cusin.
Un operaio sì, ma specializzato, raramente in difficoltà, prese soltanto due cartellini gialli quell’anno. In pochi mesi sarebbe salito sul trono di Napoli. In quel momento, valeva il trono d’Italia.
Passeggiando per le vie della città, nel triangolo compreso tra Corso Umberto, Porta Nolana e via Marina, si finisce con il capitare nel quartiere Pendino e nella storica Piazza Mercato. Lì, il nome di Tommaso Aniello d’Amalfi si respira ancora nell’aria. Se il nome non vi suggerisce nulla provate a fare una crasi: TomMASoANIELLO diventa Masaniello. Ora qualcosa vi suonerà più familiare, lo avete già sentito mille volte nelle epiche napoletane. Re senza corona per pochi giorni, quel pescivendolo che “tirava a campare” conquistò una città intera e la governò facendo tremare i potenti di Spagna. Per reagire all’odiosa gabella sulla frutta imposta dal vicerè Don Rodrigo de Leon, duca d’Arcos, anche Masaniello fece due giocate memorabili come Baroni. Il 6 giugno 1647 incendia di notte la bottega di riscossione crediti. È il primo segnale.
Un mese dopo, il 7 luglio, avvia la rivoluzione per le strade. Quel pescivendolo che non faceva paura a nessuno si arma e, a capo di quasi mille persone, mette a ferro e fuoco la città. Quella sensazione di libertà e di potere durò poco. Poi l’arresto, la decapitazione e la fine. Il ripristino dell’ordine. Ma ne era valsa la pena. Masaniello aveva dato la vita per la sua gente e, seppur per pochi giorni, era stato il vero Re di Napoli.
Baroni come Masaniello, un titolo nobiliare nel nome per Marco, che ricorda proprio così quei giorni di intensa e breve gloria: “Ero la parte operaia di quel Napoli, ma la città mi ha apprezzato perché io davo tutto, i miei limiti erano la mia forza. “Prima di quel Napoli-Lazio c’era molta tensione, poi con il mio stacco di testa è arrivato lo scudetto. Ricordo il boato del San Paolo sul mio goal, vincere a Napoli garantisce l’immortalità”.
Re, Baroni, perché non principi. C’era stato quello della risata a Napoli, il grande attore comico Totò, nato già marchese in via Santa Maria Antesaecula 109 (rione Sanità). Preso in adozione nel 1933 dal marchese Francesco Gagliardi Focas, nel 1946 il tribunale di Napoli gli conferisce un appellativo completo di ben 11 nomi. Guarda caso il numero dei componenti di una squadra di calcio. Tal Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio. Più semplicemente, Antonio De Curtis. Avrebbe fatto ridere l’Italia intera con la sua comicità, basata spesso sulla condizione dei proletari in contrasto con il potere costituito. Un film su tutti: Miseria e Nobiltà.
Tornando al calcio, altri due principi, sicuramente non per meriti nobiliari e decisamente con meno fortuna professionale, avrebbero accostato il proprio nome a quello della città di Napoli. Il primo è Giuseppe Giannini “er principe” che, dopo aver fatto della maglia della Roma una sua seconda pelle, fu chiamato nel 1997 da Carlo Mazzone per risollevare il gioco degli azzurri in un’annata complicatissima. E infatti, l’avventura di Giannini sotto il Vesuvio durò appena 44 giorni. Sor Carletto venne esonerato in fretta e lui fece le valigie dopo poco (rescissione consensuale del contratto), perché il sostituto Galeone gli preferì in cabina di regia il suo delfino storico, Massimiliano Allegri. In dieci giornate, erano cambiati già tre allenatori e il quarto, Montefusco, farà da Caronte nella discesa agli inferi della Serie B di quel disgraziato Napoli.
Ancor meno impatto, seppur con una permanenza più lunga, stavolta, lo diede l’argentino Josè Ernesto Sosa, “el principito”, che mai sarebbe diventato re. Arrivato dal Bayern Monaco a Castelvolturno il 30 agosto 2010, Sosa si rivelò un clamoroso equivoco tattico per il Napoli di Mazzarri. Trequartista compassato lui, mal si adattò nel 3-5-2 tutto corsa e contropiede. Subentrava spesso dalla panchina, non trovò mai la titolarità fissa. Così, dopo appena un anno, nel 2011 se ne andò in Ucraina.
È il caso di dire che un solo Baroni sia stato molto più regale di due principi messi insieme.
E torniamo a quel festoso 29 aprile. Corrado Ferlaino e Luciano Moggi, artefici dietro la scrivania di quel successo, vengono elasticamente issati al cielo a braccio, ripetutamente. Nello spogliatoio entrano tutti, si sta stretti come in un tram all’ora di punta e si canta “Chi non salta rossonero è…”. Il secondo portiere, Raffaele Di Fusco, eroe silente e fedele servitore della causa azzurra si asciuga gli occhi con le mani. Lacrime di gioia? Macchè, spruzzi di champagne, che schizza ovunque, dalle pareti al pavimento. Giampiero Galeazzi, giornalista inviato per la Rai, sfugge a un attentato “gavettonico” per mano del massaggiatore Carmando, ormai in preda a deliri alcolici. Bisteccone non si salverà, sommerso di asciugamani e fiumi di spumante. Maradona prende il microfono e intervista il suo presidente, mai sazio: “L’anno prossimo che vinciamo, la Coppa dei Campioni?”. Diego sarebbe ben lieto di conquistarla, ma il futuro immediato dimostrerà, purtroppo, che quel sogno è troppo azzardato.
Sandro Ciotti apre la puntata n.1850 della Domenica Sportiva omaggiando in pompa magna l’impresa dei ragazzi di Albertino Bigon. Il Giornale di Napoli, a tutta pagina, scrive in copertina: “È di nuovo nostro!”