In questo periodo di forzata pausa per lo sport causa l’emergenza dovuta alla pandemia di Covid-19, è bello e interessante aprire immaginari libri dove sono scritti innumerevoli episodi concernenti la storia della discipline sportive. Formula 1 compresa. La storia della massima categoria dell’automobilismo è certamente fatta di grandi piloti e di grandi scuderie. Ma è altrettanto fatta di uomini che, pur non disponendo di capitali illimitati e pur non raccogliendo risultati sportivi di livello, hanno scritto pagine importanti di storia della F1. Pagine che trasudano di passione e di amore per questo bellissimo sport. E non è affatto retorica affermare che, senza di loro, la Formula 1 sarebbe stata più povera e più fredda, nel significato umano di questi aggettivi. In cima alla lista di questi uomini vi è senz’ombra di dubbio Gian Carlo Minardi, fondatore dell’omonima scuderia che ha calcato i circuiti della Formula 1 per 340 occasioni dal 1985 al 2005, prima che la scuderia di Faenza venisse ceduta alla Red Bull per diventare Toro Rosso prima e Alpha Tauri adesso. Non esiste persona più adatta, quindi, per inaugurare la rubrica dedicata al racconto della storia dei grandi “piccoli” della Formula 1.
Ciao Gian Carlo. Grazie per aver accettato il nostro invito. Vorremmo partire da una curiosità: come ti spieghi che ancora oggi, sia sui social che in eventi dal vivo, le piccole scuderie vengano ricordate con affetto dagli appassionati di Formula 1? Con la Minardi ovviamente in cima alla lista.
Ciao e grazie a voi. Beh, credo che non esista una spiegazione specifica. Mi viene da pensare che probabilmente nel passato ci fosse più feeling e più contatto col pubblico. Per esempio, la Minardi, fino a quando Bernie Ecclestone poi non l’ha proibito, cercava sempre di far venire nei box quante più persone possibili per toccare con mano e vedere da vicino il lavoro dei piloti e dei ragazzi della squadra. Una forma di contatto diretto che poi abbiamo voluto ripetere nei vari Minardi day e che viene ripagato da un affetto per un qualcosa che sì fa parte del passato della Formula 1 – sebbene vorrei ricordare che senza passato non possono esistere né presente né futuro – ma che comunque è parte integrante della storia del Motorsport e che viene tramandato dai tifosi di allora alle nuove generazioni.
Da appassionato di Formula 1, hai una piccola squadra che ti è rimasta nel cuore oltre ovviamente la tua?
Da questo punto di vista, il mio punto di riferimento nell’organizzazione della mia squadra è stato la Williams, una scuderia che una volta era piccola prima di divenire quella capace di vincere titoli mondiali. Ora, purtroppo, è tornata a essere una piccola ma le auguro lunga vita e di riprendersi nel più breve tempo possibile. Dico la Williams anche perché, pure nel momento di suo massimo splendore, è rimasta come filosofia una squadra “piccola” e abbordabile. Poi, con le altre piccole scuderie, vivevamo assieme il bello e il brutto che la Formula 1 ci ha dato. L’ambiente era freddo, non si sono costruiti grandi rapporti di amicizia poiché nel weekend di gara ognuno pensava al proprio lavoro e alla propria squadra. Poi, però, quando si trattava di fare i propri interessi, le scuderie piccole riuscivano comunque a fare muro.
Veniamo ora alla storia della Minardi. 340 Gran Premi in 21 stagioni. Quale è stato il momento più bello?
Il momento più bello? Ore 9:30 di venerdì 5 aprile 1985, circuito di Jacarepaguà, in Brasile. Il semaforo della pitlane diventa verde e una Minardi esce dai box per la prima sessione di prove libere. La Minardi era in Formula 1. Ci sono stati poi in 21 anni di gare altri momenti sia belli che brutti, ma il momento focale di tutta la storia della scuderia non può non essere quello dell’esordio in Formula 1.
E il rammarico più grande, dal punto di vista sportivo?
Beh, quello di non essere riusciti a centrare il podio in un Gran Premio. Ci siamo arrivati vicini in diverse occasioni. Anche se comunque abbiamo ottenuto buoni risultati. Siamo andati a punti diverse volte in un periodo dove andavano a punti solo i primi 6 classificati. Posti che teoricamente, allora come oggi, erano già occupati, quindi entrare nei 6 voleva dire non solo fortuna, ma soprattutto grandi prestazioni. Si esultava anche per l’ingresso nei 10, considerato il numero dei concorrenti in quanto erano 18-19 scuderie.
Ecco, appunto. Negli anni ’80 e fino ai primi anni ’90, il numero delle scuderie iscritte al Campionato Mondiale di Formula 1 era decisamente elevato rispetto a quello di oggi. Era davvero così “facile” entrare nella massima categoria dell’automobilismo?
Non c’erano clausole e fideiussioni di garanzia, era una Formula 1 più abbordabile a livello di strutture. Quindi, chi aveva già una struttura di Formula 2 poteva tentare il salto nella massima categoria. Fattore unito alla situazione che vedeva in quel periodo un’offerta maggiore di sponsor e di possibilità economiche. Giravano più soldi di adesso, in pratica. Poi, però, si poteva correre al massimo in 26 perché i circuiti erano omologati per quel numero di vetture in pista e di conseguenza esistevano le pre-qualifiche, una forca nella quale per fortuna la Minardi non è mai caduta.
Tante scuderie. E diverse italiane. Come la Coloni, l’Osella, la Scuderia Italia di Lucchini, la Fondmetal di Rumi e altre. Come era il rapporto con le squadre connazionali?
Tra i diversi nomi, hai citato anche alcuni che, in tempistiche diverse, sono stati due miei soci (Lucchini e Rumi, ndr). Con lo stesso Coloni sono ancora adesso in ottimi rapporti. Con questi costruttori vi era una sana concorrenza, dato che tutti eravamo titolari di squadre che vivevano di sponsorizzazioni, quindi ognuno di noi cercava di proporre il meglio per convincere gli sponsor e i fornitori ad accettare la propria offerta. Erano belle battaglie, dato che in una situazione di 18-19 scuderie di Formula 1, diverse erano italiane e conseguentemente si affacciavano allo stesso mercato nazionale per ciò che concerne la ricerca di sponsorizzazioni. Ma sono state tutte battaglie assolutamente corrette.
– continua –