Protagonista da diversi anni del calcio italiano, Lionello Manfredonia ha visto chiudere la sua carriera in un gelido pomeriggio di fine 1989: ben poca cosa, se paragonata a un’inattesa partita con la morte.
CAMPIONE FRENATO. Lionello Manfredonia nasce a Roma il 27 novembre 1956. Giocatore di ottimi piedi e intelligenza tattica, viene lanciato dalla Lazio meno di un mese prima del diciannovesimo compleanno contro il Bologna: tenete a mente questo particolare. A farlo esordire ci pensa il tecnico Giulio Corsini, nel periodo in cui sostituisce il convalescente Tommaso Maestrelli. La squadra biancoceleste presenta ancora diversi eroi dello scudetto ’74, quel 2 novembre 1975 Manfredonia indossa la casacca numero 4. Dopo la prima stagione di apprendistato conclusa con soli 5 gettoni di presenza, diventa titolare a partire dal campionato 1976-77. Lionello è uno stopper in gamba, si fa notare al centro della difesa ed è grazie alle prestazioni in quel ruolo che guadagna la Nazionale. Enzo Bearzot lo fa esordire nel dicembre 1977 contro il Lussemburgo a Roma, nel match che sancisce la qualificazione dell’Italia ai Mondiali d’Argentina: però come libero. Un ragazzo di 21 anni, studente in Giurisprudenza, il quale veste la sua prima maglia azzurra davanti al proprio pubblico e oltretutto in modo positivo. Nel dopo partita dichiara: “Rispetto Facchetti, stimo Scirea e so che entrambi sono in vantaggio rispetto a me“, riferendosi alle sue chance di essere chiamato per il Mondiale ’78. Ci sarebbe andato, alla fine. Ma quella avrebbe rappresentato anche la fine della sua carriera azzurra… il perché è presto detto. Il giovane romano paga impazienza e un pizzico di arroganza, affrontando Bearzot e contestandogli il fatto di non essere stato convocato per stare a guardare: il ct non lo avrebbe mai più chiamato dopo la rassegna iridata, stroncandogli la carriera internazionale dopo appena 4 gettoni azzurri. Un atteggiamento che Manfredonia avrebbe pubblicamente rimpianto negli anni a venire.
CADUTA E RINASCITA. Il giocatore allora concentra esclusivamente le proprie energie sulla Lazio, tuttavia incappata in uno dei periodi più bui della propria storia sportiva. Nel 1980 i biancocelesti restano pesantemente invischiati nel primo scandalo del calcioscommesse, pagando con la retrocessione d’ufficio in Serie B e vedendo alcuni giocatori di spicco squalificati in modo pesante. Manfredonia è tra questi, ricevendo tre anni e mezzo di allontanamento. Una mazzata, che lo priva in modo completo delle stagioni 1980-81 e 1981-82. Lui, come tutti gli altri coinvolti, viene riabilitato dopo l’amnistia seguente alla vittoria del Mundial 1982: a cui anche Manfredonia, se avesse agito in modo diverso quattro anni prima, forse avrebbe partecipato. Quando rientra in campo la Lazio è ancora in cadetteria, però con il suo importante contributo ritorna in A a fine stagione. Lionello si reinventa in un nuovo ruolo in campo, quello di mediano, grazie a un’intuizione dell’allenatore Roberto Clagluna. Due annate con i biancocelesti e il trasferimento alla Juventus nell’estate 1985, con il compito di sostituire Tardelli. Vince uno scudetto e una Coppa Intercontinentale, unici trofei della carriera da professionista. Nel 1987 è protagonista di un chiacchierato passaggio alla Roma, criticato sia per l’arrivo diretto dalla Juve – grande avversaria dei giallorossi in quel decennio – che per i noti trascorsi alla Lazio, tanto che una frangia di tifosi romanisti decide di osteggiarlo senza mezzi termini offrendogli un benvenuto “coi fiocchi”.
IL DRAMMA. Lionello Manfredonia disputa i primi due campionati alla Roma con risultati tutto sommato positivi, da titolare. Proprio come accade anche nel girone d’andata 1989-90. Finché all’ultima partita prima del giro di boa, un evento improvviso sconvolge la vita del calciatore. 30 dicembre 1989: la squadra guidata da Gigi Radice scende in campo al Dall’Ara contro il Bologna in un pomeriggio gelido, dove la temperatura scende addirittura sotto lo zero. Passano appena cinque minuti. Viene giocato un pallone dall’ex compagno laziale Giordano sulla linea di fondo, lui va in contrasto con Desideri che alla fine sparacchia in corner. Manfredonia si incammina verso il centro della propria area, ma sembra inciampare senza motivo apparente. Si accascia al suolo. Tutti si rendono conto immediatamente di quanto sia grave la situazione: la disperazione è forte, l’amico Bruno Giordano ne viene colpito nel giro di pochi secondi. Lionello viene soccorso sull’erba bolognese, adagiato su una barella e portato a gran velocità all’ospedale Maggiore della città felsinea. L’intervento sanitario è tempestivo, tuttavia l’atleta entra in coma. Manfredonia ha subito due arresti cardiaci: fortunatamente, dopo due giorni riprende conoscenza. Riconosce i cari, tra cui la giovane moglie Carolina, chiedendo addirittura una sigaretta. Viene dimesso dalla struttura ospedaliera, primo passo verso il ritorno a una vita normale ma… con il calcio è costretto a smettere, dopo il parere contrario dei medici circa il suo ritorno all’attività. Così a 33 anni Lionello deve dire basta, per iniziare la sua seconda vita da dirigente e poi da agente: “Devo la vita al massaggiatore Giorgio Rossi, che mi fece la respirazione bocca a bocca, e al medico della Roma, il dottor Alicicco. E devo ringraziare anche il dottor Naccarella, che mi praticò la defibrillazione sull’autoambulanza: dopo tre scariche in genere si lascia perdere, lui arrivò alla quarta“, ha ricordato l’ex azzurro.
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