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Da Tognazzi agli Ultras “romanzati”: il film di Lettieri delude, ma non va condannato

Da Ultrà di Ricky Tognazzi a Ultras di Francesco Lettieri sono passati vent’anni in mezzo, ma un filone sembra unirli in maniera inevitabile: la volontà di portare sui grandi schermi la tifoseria organizzata nella loro versione più cruda, violenta, ma senza aver l’obiettivo di raccontare quel mondo con lo spirito del film d’inchiesta. E, allo stesso modo, a unirli è la reazione delle tifoserie in questione, Roma per il primo e Napoli per il secondo, che non hanno nascosto la propria contrarietà a questi riflettori puntati addosso. La storia di questo mondo, d’altro canto, ci insegna che le telecamere non sono mai state apprezzate da buona parte degli ultras, che preferiscono difendere internamente tale realtà, allontanando dalle luci della ribalta la propria dedizione a un gruppo e a una comunità che va oltre il calcio, ma che trova in esso la giustificazione della propria esistenza.

Sembrano le stesse frasi con cui i tifosi ultras del Napoli hanno tappezzato tutta la città in questi giorni attraverso i propri striscioni, accogliendo l’uscita del lungometraggio di Lettieri, e invece no: sono le parole dei Boys, Fedayn e Veri Ultrà romanisti di due decenni fa al momento dell’uscita del film di Tognazzi. Allora era Claudio Amendola, scelto come attore nel film ma assiduo frequentatore della Curva Sud dell’Olimpico, a essere stato contestato con parecchia aggressività proprio dai tifosi giallorossi; oggi è Lettieri a ironizzare sui suoi dubbi di poter tornare al San Paolo almeno a breve termine.

Poco importa che nel mezzo il calcio abbia vissuto la propria evoluzione più rapida, che siano cambiate tante cose anche nel mondo degli ultras e non certo in positivo, come hanno dimostrato le tante inchieste uscite in questi anni sul malaffare e le violenze dei gruppi più estremisti: dai legami degli ultras della Juventus con la ‘Ndrangheta alle vergognose storie degli Irriducibili della Lazio, fino alle tremende aggressioni avvenute dentro e fuori gli stadi negli ultimi 20 anni, costate la vita anche a diverse persone. Dei riflettori poco graditi hanno ancora una volta illuminato quell’angolo di tifoseria che preferisce restare all’oscuro, tranne nei week-end delle partite, avvolta da un alone di mistero sulle attività effettive dei propri membri. Ma la reazione di rigetto è stata immediata, cercando di proporre un’immediata, seppur non troppo approfondita, contronarrativa.

Per comprendere e forse riuscire ad apprezzare meglio Ultras, bisogna partire quindi da un presupposto: non è un docu-film o un’inchiesta sul mondo della tifoseria organizzata, partenopea in questo caso. La vita di quella comunità viene presentata come un espediente narrativo, un contenitore per provare a raccontare (seppur con un’efficacia piuttosto debole, va detto) altre tematiche sociali che valgono per tanti ambiti della vita: lo scontro tra generazioni, quella più “vecchia” che si appoggia al proprio prestigio costruito negli anni, ma che finisce per cominciare a sentire il peso degli anni, nascosta dall’arrogante pretesa di restare comunque comando, e quella dei più giovani, vulcani pieni di energie per troppo tempo chiusi nel proprio ribollire e che finiscono per esplodere, in maniera del tutto disordinata e con conseguenze soltanto dannose per il gruppo.

Ma è il racconto anche di un’impacciata storia d’amore in cui il protagonista Sandro (interpretato da un buonissimo Aniello Arena) si ritrova a dover fare i conti con le contraddizioni di chi sente di volersi liberare delle pesanti vesti del passato per abbracciare una vita nuova, ma senza riuscire, fino al tragico epilogo, a liberarsi davvero dai continui richiami del gruppo con cui ha condiviso parte della sua esistenza. La scelta di ambientare tutte queste vicende di vita nella dimensione della comunità ultras è dettata proprio dalla voglia di esasperare questi contrasti nel mondo in cui passione, amore a volte cieco, senso di appartenenza, rivalità, odio e persino violenza, finiscono per oscillare continuamente da un estremo all’altro. Si creano dei continui chiaro-scuri in cui ben poteva inserirsi, almeno potenzialmente, il racconto proposto dal regista.

È questo il confine che lo stesso Lettieri ha deciso di stabilire, senza voler andare oltre, ed è forse anche il limite più evidente di un film che, in fin dei conti, non dispone di una trama così sorprendente e che finisce per non raccontare nulla di nuovo, soprattutto per chi segue con un minimo di attenzione il mondo del calcio anche al di fuori del terreno di gioco. La storia è chiara, anche fin troppo lineare nelle sue vicende, e di grossi colpi di scena non ce ne sono. Lettieri, d’altra parte, voleva puntare sulla psicologia dei personaggi, sulle riflessioni e le ragioni differenti della propria esistenza, con l’obiettivo di presentare tante sfumature di una Napoli che prova a raccontare con le (belle, va detto) parti di fotografia e nel mix delle canzoni di Liberato (certamente presente, sempre d’effetto, ma che ci si sarebbe aspettati di sentire un po’ di più, soprattutto con il pezzo con cui ha promosso il film We come from Napoli).

Il problema è proprio qui: non volendo presentare un film sugli Ultras in sé, ma sulle evoluzioni personali di alcuni propri membri, la stessa rappresentazione psicologica dei protagonisti sembra quasi limitata. Finisce, in sostanza, per portare una versione più debole dei tanti film e serie televisive che già hanno parlato del lato più oscuro di Napoli, ma in una dimensione “calcistica” che resta purtroppo debole. Dico purtroppo perché, in realtà, questa continua e disperata ricerca di un’identità da parte dei personaggi, tutti di fronte a un bivio in una fase delicata della propria vita (la maturità per Sandro, l’ingresso nel mondo dei grandi per Pechegno, l’adolescenza già turbata di Angelo), poteva essere uno spunto interessante proprio per indagare più a fondo il mondo complesso degli ultras, almeno sul piano psicologico e sociale, pur mantenendo la voluta neutralità di giudizio verso il fenomeno in sé rivendicata da Lettieri in tutte le sue interviste (e confermata effettivamente nel film).

Il film resta insomma in una via di mezzo, ma il grande centro delle accuse da parte di una frangia degli spettatori a Lettieri è un altro: la scelta di utilizzare complessivamente personaggi e vicende inventati, ma inserire una storia che sembra ricordare la figura di Ciro Esposito, il tifoso morto in seguito a degli scontri con tifosi della Roma. La figura di “Sasà” lo richiama proprio perché morto in uno scontro proprio con la tifoseria giallorossa e il film gira in parte anche su questa volontà di vendetta. Il regista ha però già chiarito che l’intento non era quello di fare un simile riferimento: Sasà sarebbe semplicemente il simbolo del “martire ultras”. Voglio credere a quanto dice Lettieri, perché quel nome fa male per tanti napoletani, anche non tifosi. E quando si parla di un morto, non è il caso di alzare polveroni e polemiche che finiscono solo per far male.

Il risultato, insomma, è che il film racconta troppo poco rispetto a quanto mi sarei aspettato finisse per raccontare: tra la strada della storia romanzata e quella dell’inchiesta, avrei di gran lunga preferito la seconda. Ma quello che è certo è questo film non merita nessuno di tutti gli attacchi violenti ricevuti in questi giorni: il racconto finisce per esasperare alcuni aspetti della tifoseria organizzata, ma le esperienze di questi anni (non necessariamente legate agli ultras partenopei) ci impediscono di dire che siano inventati. Arrendersi a quest’idea significa nascondersi alla luce di tutte le vicende tutt’altro che positive avvenute in questi anni. Resta una storia romanzata, più bella da vedere che da ascoltare, e Lettieri meriterà una nuova chance. Così come la meriterà chiunque vorrà tornare a parlare, magari con lo sguardo del regista o giornalista d’inchiesta, di un mondo su cui, invece, si sente ancora la necessità di fare luce per comprenderlo fino in fondo e contrastarlo nei suoi lati più violenti e criminali.