Gianni Mura, l’elogio della modestia in una persona fuori dall’ordinario
La notizia della morte di Gianni Mura, una delle grandi firme del giornalismo sportivo, ci ha colto di sorpresa, in questi giorni difficili. Al di là della fredda nota d’agenzia (il giornalista, 74 anni, è stato stroncato da un attacco cardiaco, e si è spento in mattinata all’ospedale di Senigallia), la cosa non poteva lasciarci indifferenti.
Chi scrive fa parte di quella generazione che è diventata adulta leggendo i suoi pezzi e quelli di chi l’aveva preceduto (Gianni Brera, e non solo) in un periodo nel quale, con la televisione non ancora così presente, erano la radio ma soprattutto la carta stampata a raccontare cosa succedeva negli stadi e sulle strade dei grandi Giri.
Gianni Mura, con altri della sua generazione o di quella precedente (Gian Maria Gazzaniga, il già citato Brera, oltre ai radiocronisti di Tutto il calcio minuto per minuto, e poi Beppe Viola, Adriano de Zan per citarne solo alcuni) era il sogno di chi, come me, sperava, un giorno, di potersi sedere al piano di sotto di San Siro, in tribuna stampa.
Eh si. Da piccoli quasi tutti sognano, allo stadio, di poter essere un giorno in campo, a urlare al cielo la propria gioia per un gol. La palla che parte, la rete che si solleva, l’urlo della folla, l’abbraccio dei compagni. Quasi tutti. Perché noi facevamo parte di quella categoria di ragazzi che, invece, avevano (grazie a un grosso spirito autocritico) un sogno diverso.
Ci siamo resi conto quasi subito che il pallone non andava dove volevamo noi, quando lo lanciavamo. Che i nostri amici ci lasciavano sul posto con un dribbling secco, e che preferivano metterci in porta, nelle sfide al campetto, con un sorriso d’intesa. Certo, capivamo di tattiche; sapevamo analizzare i gesti tecnici di ciclisti e giocatori, citavamo episodi e campioni del passato, ottenendo l’attenzione e l’approvazione di chi ci ascoltava.
E, a un certo punto, iniziammo a considerare che il nostro posto, allo stadio, poteva essere tra quelli che raccontavano cos’era successo a chi non poteva venire. E così, qualche anno (decennio…) dopo, ci sedemmo in tribuna stampa a San Siro. Che, scherzo del destino, attualmente occupa il settore dove andavamo a vedere la partita da ragazzini.
Tutto questo per spiegare che si può fare il tifo anche per chi racconta, e non solo per chi le imprese le compie. Non ho mai avuto il coraggio di parlargli: l’ho sempre guardato da lontano, con l’ammirazione di chi, per lustri, ha sperato di poter fare lo stesso mestiere, anche se, ovviamente, ciò oggi avviene a livelli molto, molto diversi.
Gianni Mura era un personaggio molto differente da Gianni Brera: pur avendo entrambi lo stesso ambito d’interessi (calcio e ciclismo: Mura era un grandissimo esperto del Tour de France) avevano uno stile totalmente differente. Mura ci piaceva perché aveva una prosa normale. Non ha inventato neologismi alla Brera (“Abatino” per Rivera, “Rombo di Tuono” per Riva e via discorrendo), ma scriveva come avremmo fatto noi. E, in più, aveva una cultura sconfinata, che gli permetteva di regalare sempre qualche perla a chi leggeva.
Mura ci ha insegnato che, per scrivere (può sembrare ovvio, ma meglio ribadirlo…), bisogna aver letto molto, prima. E non solo di sport: perché lo sport è metafora della vita, e la Vita la s’impara vivendola, e leggendo cos’hanno fatto gli altri prima di noi. Con queste basi, si può addirittura raccontare il calcio con competenza, farsi leggere da tanti, pur non avendo giocato a livelli eccelsi. Si può descrivere una corsa ciclistica, coglierne i momenti chiave, pur non essendo mai stati nel Gruppo.
Mura non andava spesso in televisione, a differenza di altri. Non era un grande comunicatore sul piccolo schermo, o davanti a un microfono. Probabilmente era timidezza, riservatezza. Per quelli come noi, non necessariamente dei difetti, in una persona. Non amava il chiasso e l’affollamento: i colleghi svizzeri, che lo conoscevano, raccontano oggi sulla RSI di come fosse solito sfuggire il finale del Tour: “Troppo casino, non ha senso.”
Per lui, le cose importanti della vita erano il pallone, la bicicletta, la buona musica, una bottiglia di vino rosso e un salame da affettare, metafora (soprattutto longobarda) della buona cucina. Poco, tanto? Non lo sappiamo, sono opinioni soggettive. Il fatto che si sovrappongano alle nostre (e a quelle di tanti che fanno questo lavoro, e che frequentiamo) è segno che si tratta, magari, di una soggettività, ma condivisa. Arrivederci, Gianni: grazie, a te e non solo, di avermi regalato un sogno.