Verso #Euro2020 – 1968: una monetina e… finalmente Italia!
Che il 1968 sarebbe stato un anno tumultuoso lo si era capito subito. Poco dopo capodanno, la rockstar Jimi Hendrix, in tournée in Scandinavia, danneggia la sua camera d’albergo e viene arrestato a Stoccolma. A maggio il leggendario chitarrista avrebbe infiammato l’Italia con una serie di concerti spettacolari tra Milano, Bologna e Roma. Le ragazze impazzivano per il brutto con la permanente. Quell’anno sarebbe passato alla storia come rivoluzionario per eccellenza: gli operai protestano, gli studenti scendono in piazza (gli scontri con la polizia del 1°Marzo a Valle Giulia, di fronte alla facoltà di architettura dell’Università di Roma, saranno violentissimi), sventolano le bandiere rosse e si sogna il cambiamento. Anche la terra vibra, purtroppo, perché il 15 gennaio, in Sicilia, il terremoto del Belice causa la morte di 370 persone. È l’anno della Primavera di Praga e di un movimento globale, che va dalla California a Berlino Ovest. E si diffonde anche in Italia, dove le strade si riempiono di fantasia e, spesso, anche di violenza. Per il nostro calcio, il ’68 è anche l’anno della nascita dell’AIC, l’associazione italiana calciatori, che in luglio vede il suo fondatore, e presidente fino al 2011, nell’avvocato Sergio Campana, ex-centravanti di Vicenza e Bologna.
Anche la Nazionale italiana aveva dovuto compiere una rivoluzione. Gli anni sessanta non erano stati, fin lì, benevoli con i colori azzurri. Assenti agli europei del ’60, pestati a sangue dal Cile nel ’62, eliminati dall’URSS negli ottavi nel ’64 e, infine, umiliati dalla Corea nel ’66. Il punto più basso mai raggiunto fino ad allora. Gianni Brera, già firma di spessore del giornalismo sportivo italiano, non ebbe pietà sulle pagine de “Il Giorno”:
“Giornata amara, giornata di vergogna. Una mesta broccaggine sembra essersi impadronita dei nostri giocatori. Undici ragazzi coreani sprovveduti di tecnica, ma non certo di coraggio né di slancio hanno messo sotto, votandoli ad un’ignobile fine, i nostri miliardari, esaltati da megalomani dei quali purtroppo siamo stati complici. […] Spettacolo indegno, abbiamo toccato il fondo […] Eravamo venuti strombazzando prezzi ed ingaggi favolosi, mezzi miliardi, milioni a centinaia per brocchetti vuoti come canne, paurosi e imbelli al punto da sdegnare chi appartiene al loro paese e da esilarare chiunque, conoscendoli famosi, li ha veduti goffi e inutili […] L’ennesima Waterloo del calcio italiano farà forse finire una situazione di fatto veramente insostenibile e insopportabile […] La selezione venga attuata da tecnici e non da ignoranti eternamente condannati all’empirismo. Si avvino al calcio gli atleti e non le smunte signorinelle che abbiamo veduto miseramente pedatare e sentito fin troppo esaltare in questi anni di desolante penuria agonistica […] Una spedizione sbagliata in partenza […] I coreani vanno a Liverpool per giocare i quarti […] Intorno a noi, risate, soltanto risate. Al diavolo, dico al diavolo, tutto ciò!”.
Occorreva cambiare e in fretta. Il presidente della FIGC è Artemio Franchi, uno dei più grandi dirigenti sportivi che l’Italia abbia mai avuto (sarebbe diventato anche presidente UEFA) e da poco succeduto a Giuseppe Pasquale, naufragato anch’egli con tutto il clan azzurro. Franchi si affida al team manager Walter Mandelli e, costui, sceglie come nuovo Ct un uomo della federazione: Ferruccio Valcareggi. Assistente di “Mondino” Fabbri, non esente da colpe nell’aver sottovalutato i coreani, definendoli “ridolini”, ma incaricato comunque di ricostruire dalle macerie di Middlesborough.
L’UEFA assegnò l’organizzazione della fase finale all’Italia, da mercoledì 5 a sabato 8 giugno 1968. A partire da questa edizione, entrano in gioco i gironi eliminatori: non più gare ad eliminazione diretta per le qualificazioni, come nel ’60 e nel ‘64. Al torneo il numero delle partecipanti cresce ancora, 31 nazionali (più l’Italia, Paese ospitante). Le vincitrici degli 8 gironi, uno dei quali composto da 3 nazionali e gli altri sette da 4 ciascuno, si sarebbero scontrate nei play-off, di fatto i quarti di finale. Ai quarti l’Italia rischia molto contro la Bulgaria. A Sofia, un gol di Prati all’83’ chiude i conti sul 3-2 per i padroni di casa, ammorbidendo un passivo che sarebbe stato, altresì, insormontabile. A Napoli la rimonta si compie, grazie ai gol ancora di Prati e Domenghini, che chiudono la pratica in nemmeno un’ora di gioco.
Le sedi scelte per ospitare la fase finale sono, questa volta, tre: lo Stadio Comunale di Firenze (che poi prenderà il nome del presidente federale), lo Stadio Olimpico di Roma e lo Stadio San Paolo di Napoli.
La semifinale contro l’URSS la giochiamo proprio in Campania, lì dove abbiamo già dato il benservito ai bulgari. Il 5 giugno 1968, intanto, verrà ricordato nel mondo non tanto per questa partita, ma per l’assassinio a Los Angeles di Robert Kennedy, fratello di John e candidato democratico alla presidenza USA. A Novembre vincerà il candidato repubblicano: Richard Nixon. Ma torniamo a noi.
È tempo di vendicare l’eliminazione da parte dei russi agli ottavi del ’64. Siamo di nuovo in una semifinale di un torneo per nazionali, come non accadeva da trent’anni, dal 1938 che ci decretò per la seconda volta consecutiva campioni del mondo a Parigi. Altri tempi, la Nazionale di adesso vive, purtroppo, su due equivoci tattici: disporre Rivera come interno di centrocampo, costringendolo a compiti di copertura di cui non è assolutamente capace, e impostare Sandro Mazzola da centravanti. Il figlio di Valentino, mingherlino com’è, ha tante doti tecniche, scatto e velocità, ma non certo la presenza e la possenza di un numero 9. I due maggiori talenti azzurri, insomma, relegati fuori ruolo. E, infatti, la partita contro i sovietici la giochiamo malissimo, senza creare occasioni da gol importanti. Soltanto Domenghini, il migliore in campo, una forza della natura, cerca di combinare qualcosa e provoca emozioni vibranti ai napoletani, quando il suo tentativo si infrange contro il palo. 120 minuti non bastano agli uomini di Valcareggi per sovrastare i sovietici, anche loro abulici in attacco. Niente accade nemmeno ai supplementari. Le squadre tornano negli spogliatoi, sugli spalti del San Paolo cala un silenzio gelido. L’arbitro tedesco Tschenscher convoca i capitani delle due squadre: sarà il lancio di una monetina da cento lire a stabilire chi andrà in finale. Il silenzio si trasforma in fragoroso frastuono, quando Giacinto Facchetti esce dalla pancia dello stadio con le braccia alzate, è l’esultanza che tutti aspettavano. Ce l’abbiamo fatta, siamo noi in finale. Non in maniera ortodossa, ma poco importa.
In un’intervista successiva, Facchetti spiegherà che ci furono addirittura due lanci, ma il primo fu nullo perché la moneta s’incastrò in bilico in una fessura. Non c’è dubbio che, quel giorno, intervenne anche San Gennaro: fu la sua mano, per gli scaramantici napoletani, ad aver fermato la moneta sul lato scelto dal capitano azzurro: cioè testa.
L’unico colpevole della pur meritevole Unione Sovietica, uscita dai giochi senza, di fatto, perdere fu il ct Jakušin, sergente di ferro che poco amava le stravaganze e che, per questo, lasciò fuori dai convocati il grande Eduard Strel’cov e i centrocampisti della Dinamo Kiev, József Szabó e Ferenc Medvid. Se sul primo pesava la prigionia e l’accusa di stupro, sugli altri due fuorono alcuni compagni di nazionale a calare la mannaia della vergogna. Con una lettera dura sulla “Komsomol’skaja Pravda”, l’organo di stampa di propaganda del Partito comunista, denunciarono il comportamento antisportivo dei due. Szabo veniva descritto come un egoista vanesio, uomo debole e amico infido che pensava ai fatti propri. Medvid’ avrebbe falsificato un certificato medico per tornare a Kiev, ma facendosi trovare in campo con la Dinamo alcuni giorni dopo. In realtà il sospetto, più che fondato, è che fossero stati gli alti apparati ad aver orchestrato la cosa, perché non gradivano personalità troppo spiccate nella selezione sovietica.
Quell’uscita di scena fu il secondo, terribile, dolore di quell’anno per Mosca, che in primavera aveva dovuto dire addio tragicamente ad un eroe della patria: Jurij Gagarin, il primo uomo a volare nello spazio. Morto, ironia della sorte, in un incidente aereo.
Nell’altra semifinale, la Jugoslavia si sbarazza di un’Inghilterra stanca e presuntuosa, come da suo DNA. Con la vittoria del mondiale, poi, l’ego era schizzato sulla Luna. E la batosta non tardò ad arrivare, due anni dopo a Wembley. Gli slavi giocano bene, danzano sul campo in virtù di una grande tecnica in proprio possesso e basta il gol di Dragan Džajić per guadagnare la vittoria.
Dunque finale, all’Olimpico di Roma contro la Jugoslavia. Ci vogliono due partite, e uno slittamento del torneo fino al 10 giugno, per stabilire un vincitore. La prima sfida, infatti, si conclude con un altro pareggio. Anche stavolta gli azzurri di “Zio Uccio” non offrono una prestazione degna di nota, l’arbitro Dienst li grazia in due occasioni, negando agli slavi due rigori evidenti. Gli uomini di Mitic giocano meglio e passano in vantaggio, ancora con Džajić, abile a spizzare di rapina in rete un pallone in mischia al centro dell’area. Soltanto una legnata su punizione di Domenghini, a 10’ dalla fine, ci evita la figuraccia in casa nostra. Resistiamo agli attacchi avversari nei supplementari e, questa volta, niente monetina: si ripete la partita.
Il duo Mandelli-Valcareggi corregge parzialmente le proprie convinzioni: Riva sostituisce Prati, Mazzola al posto di Juliano, finalmente da trequartista, De Sisti e Rosato in mezzo, con Domenghini libero di svolazzare sulla banda, per compensare l’assenza di Rivera e dietro Salvadore in luogo del pur coriaceo Castano. Stranezze numeriche di quel tempo, Facchetti ha la 10 sulle spalle, Anastasi da attaccante indossa il 2, Domenghini porta fiero la numero 9. Finalmente i risultati si vedono, la squadra gioca, attacca, aggredisce: convince. Al 12’ Rosato serve al centro Domenghini, sulla trequarti l’interista prova un sinistro da fuori area, ma la sua conclusione è fiacca, rasoterra, impalpabile. La traiettoria del suo tiro, però, viaggia con la dea bendata sul sinistro di Riva, che sorprende l’immobile difesa avversaria, stoppa la sfera e manda la palla all’angolino. Italia 1, Jugoslavia 0. Siamo “on fire”, Anastasi lancia sulla sinistra Mazzola, spunto alla Suarez di gran classe e cross perfetto d’esterno destro per Gigi Riva, che di testa impegna il bravissimo Pantelic. Il tuffo del portiere toglie la palla dal pericolo proprio nel momento in cui sta per toccare la linea di porta e infilarsi in rete. È il preludio al raddoppio. De Sisti serve al limite dell’area Anastasi, “Pitruzzu” solleva la sfera nello stop con il destro e con lo stesso piede scaglia una volèe solida e precisa, la palla sibila accanto al palo e gonfia di gioia la rete e gli spalti dell’Olimpico, in visibilio. Italia 2, Jugoslavia 0. Si abbracciano tutti, anche in tribuna stampa. Brera con un sergente dei pompieri. Anastasi, giunto in azzurro dal Varese e prelevato dall’Under 21 nell’opera di ricostruzione valcareggiana, è sempre rimasto incredulo della sua prodezza: “Non ricordo come stoppai la palla, ricordo solo il passaggio di De Sisti e il tiro al volo che s’insacca, feci tutto d’istinto, con l’incoscienza di un ragazzo di vent’anni”. Il tempo delle critiche è finito, l’Italia domina e giustifica la vittoria, Domenghini orchestra tutta la manovra, è lui il deus ex-machina di questa Nazionale, per la prima volta Campione d’Europa. E in casa propria, per giunta.
Roma andò nel caos euforico più totale quella notte, lo ricorda bene lo stesso Gigi Riva in un’intervista: “Dopo la partita, c’era una festa in un albergo in pieno centro di Roma, ma riuscimmo a raggiungerlo solo all’alba. A passo d’uomo, arrivammo alle 4 del mattino. Avevo fame, mi cucinai una bistecca, poi tre ore di sonno e poi di corsa all’aeroporto per tornare a casa”. Il Presidente della Repubblica, Saragat, insignì gli uomini di quella rassegna con il titolo di Cavalieri.
Questa volta, i toni di Gioânn sono ben altri: “Molto bene, siamo campioni d’Europa. Dopo trent’anni siamo arrivati a un titolo degno del passato e delle nostre ambizioni. Abbiamo soprattutto debellato la pistolaggine che ci perseguita da trent’anni. La seconda finale l’abbiamo giocata. Il forcing lo hanno fatto gli avversari, come sempre acadeva negli anni Trenta. E noi abbiamo attaccato e vinto in velocissimo contropiede. Questa, signori, la verità sugli ultimi trent’anni e sulle ultime cinque ore e mezzo di calcio azzurro. Se ce ne ricorderemo, non dovremo aspettare altri trent’anni per combinare qualcosa. Ho detto”. E si ammorbidisce addirittura sul tanto vituperato Fabbri: “Mondino non è un fesso: è diligente, è bravo. Sconta la pistolaggine di tutti più che la propria. Arriva ad avere squadre più che discrete, però abatine”.
Il potenziale era davvero alto, mica bugie, due anni più tardi la rivoluzione poteva sublimarsi nel primo storico “double” (Europeo+Mondiale) in Messico. Ma il Brasile di Pelé era alieno, proveniva da galassie calcistiche lontane e più elevate. Noi ci limiteremo a battere la Germania 4-3 allo Stadio Azteca di Città del Messico in semifinale. Una partita memorabile, bellissima, piena di capovolgimenti di fronte, di subalterni stati d’animo, pregna di cadute e risalite. Centoventi minuti di summa calcistica evoluta.
Semplicemente, la partita del secolo.
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VERSO EURO2020, USCITE PRECEDENTI:
PUNTATA #1 – 1960, URSS campione e la stella che non c’è: Ėduard Strel’cov
PUNTATA #2 – 1964: la Spagna alla rivincita del “partido fallido”, e la prima “prova tv”