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Verso #Euro2020 – 1960, URSS campione e la stella che non c’è: Ėduard Strel’cov

Il 1960 è un anno pieno di avvenimenti, in Italia soprattutto: agli albori del decennio del boom economico, il 10 gennaio va in onda la prima puntata di “Tutto Il Calcio Minuto Per Minuto” dalla sede RAI di Corso Sempione, con la conduzione di Roberto Bortoluzzi. A Marzo esce al cinema la Dolce Vita di Federico Fellini, che dopo appena due mesi vincerà la Palma D’Oro a Cannes, nonostante le reprimende della Chiesa e della destra conservatrice. Il 25 agosto si aprono i giochi olimpici di Roma, XVII edizione e l’8 Novembre John Fitzgerald Kennedy vince le elezioni presidenziali con pochi voti di scarto sul repubblicano Richard Nixon e diventa così il 35º Presidente degli Stati Uniti.

Per quanto ci riguarda, il 1960 è l’anno della prima edizione ufficiale dei campionati europei di calcio. Il sogno degli anni 20’ di Henry Delaunay, dirigente sportivo francese, diventa realtà dopo la morte di Stalin nel 53’ e la politica del disgelo di Kruscev, si concretizza con la nascita dell’UEFA nel 1954 e sostituisce la vecchia Coppa Internazionale. Il visionario Delaunay, però, non vedrà la sua creatura, perché muore nel 1955.
La formula ricalca, in parte, quella che vedremo quest’anno. Non a caso. Le semifinali e la finale, infatti, vengono disputate in gara secca in una delle nazioni che arrivano fino in fondo, in una sorta di Final Four. Quest’anno noi vedremo a Wembley gli ultimi due atti del torneo. La scelta, all’epoca, ricade sulla Francia. Alla competizione prendono parte 17 squadre, con la rinuncia clamorosa di Svizzera, Olanda, Inghilterra, Scozia, Germania Ovest e Italia. Quest’ultima, troppo debole, preferisce evitare la figuraccia. Il pretesto? Le imminenti qualificazioni mondiali per Cile ’62 e gli impegni internazionali dei club. Le partite hanno due sedi, il Parco dei Principi di Parigi e lo Stade Velodrome di Marsiglia.

Irlanda e Cecoslovacchia fanno uno spareggio preliminare, vinto dai cechi, quindi si parte con 16 squadre e gli ottavi di finale. In semifinale si affrontano Francia e Jugoslavia, che danno vita ad un autentico spettacolo pirotecnico di gol. In un’altalena di sorpassi e controsorpassi, si aggiudica l’incontro l’undici di Lovric per 5-4. Una delle vittorie più belle della storia jugoslava. Sull’altro fronte, non c’è storia tra URSS e Cecoslovacchia, i russi chiudono la pratica nella fase centrale del match, con una doppietta di Ivanov ed il tris di Ponedel’nik. Gli uomini di Kacalin avevano superato facilmente i quarti, grazie al rifiuto della Spagna, sotto la dittatura di Francisco Franco, di scendere in campo a Mosca. La guerra fredda contava eccome e le due nazioni non si amavano affatto. Il duello tra la saeta rubia Di Stefano e Lev Jasin non potè avere compimento e godimento per gli spettatori. Un peccato, perché gli iberici avevano un autentico squadrone, impostato sull’ossatura del Real pluricampione d’Europa e del Barcellona, con Gento, i naturalizzati Puscas e Kubala, più Suarez e capitan Segarra.

Si arriva alla finale, URSS contro Jugoslavia, eterna rivalità dal 1952 in poi. Alle Olimpiadi di Helsinki andò male per i russi nel return match degli ottavi, dopo il 5-5 della prima partita. A Melbourne, nel ’56, la rivincita sovietica con l’oro conquistato ai danni degli slavi grazie al gol in finale di Il’in. Al Parco dei Principi apre le marcature Galić al 43’ per gli jugoslavi, ad inizio ripresa pareggia Metreveli e si va ai supplementari. Al 113’ il sigillo di Ponedel’nik regala la prima coppa Europa all’Unione Sovietica, simbolo di gloria definitivo dopo la destalinizzazione, per buona pace di Franco.

Il protagonista di quella rassegna? Lev Jasin, certo, ma il vero personaggio è colui che non c’è. Un attaccante che fa furore dal 1954 e che, se non avesse vissuto ciò che stiamo per raccontare, probabilmente ai mondiali in Svezia del 1958 avrebbe potuto oscurare l’astro nascente Pelé. Si chiama Eduard Strel’cov, classe ’37, umile operaio della fabbrica Frezer, falegnameria industriale moscovita. Vanto del governo sovietico. Attaccante possente di fisico, ma veloce e agile, capace con le sue accelerazioni di atterrire ogni difesa e segnare valanghe di gol con il suo tiro potente o fornire assist per i suoi compagni, preferibilmente con il colpo di tacco. Un precursore di questo gesto tecnico. Idolo della Torpedo Mosca, la squadra della fabbrica automobilistica Zil, una seconda pelle per la vita. Medaglia d’oro alle olimpiadi di Melbourne nel ’56 con l’URSS. Perché, allora, non figura tra i convocati del mondiale prima e dell’europeo poi? Semplice, perché Edik, come lo chiamano gli amici, è finito in un gulag. Un campo di rieducazione attraverso il lavoro. Ci è finito per una brutta storia di stupro o, come si vedrà più avanti, per esser finito nel mirino del governo come idolo anti-socialista da reprimere, cattivo esempio occidentalista da scacciare. Il classico bad boy, preferiva passare dal campo alle notti in balera, vestiva abiti sgargianti, aveva molte donne, ma il suo profondo amore era, oltre che per la vodka e per il calcio ovviamente, solo per la madre Sof’ja, che lo ha cresciuto da sola dopo che il padre, un ufficiale dell’esercito, era scappato in Ucraina con una crocerossina, alla fine del secondo conflitto mondiale. La stampa di partito comunista sguazza in ogni sregolatezza di Eduard, amplificandola, a volte inventandola di sana pianta, pur di screditare l’uomo e il calciatore ad ogni gara sottotono. Erano poche.

Il 25 maggio 1958, a due settimane dall’inizio del mondiale (il sogno che sta per realizzarsi), il suo destino cambia irrimediabilmente. Passa una notte spensierata con un paio di compagni di nazionale e alcune amiche in una dacia di campagna, trova la folle passione con la giovane Marina. L’aria è dolce e tutto sembra bellissimo. Il giorno dopo, però, in procinto di volare in Svezia con la nazionale, viene fermato dalla polizia russa insieme ai compagni Tatusin e Ogon’kov. L’accusa è pesante. Stupro. Una lettera di denuncia di Marina Lebedeva, 20 anni (quindi minorenne), risvegliatasi con dei lividi sul corpo lo inchioda. Sarà vero? Eppure i due se la intendevano alla grande, non c’erano i presupposti per una violenza. I due compagni di squadra, a seguito del ritiro della denuncia di un’altra ragazza nei loro confronti e presente quella notte, vengono rilasciati poco dopo, sebbene esclusi dalla spedizione iridata. Eduard no. Il governo, con l’inganno di una promessa di chiusura frettolosa della vicenda, lo convince a firmare una confessione che lo convince poco, ma che appare l’unico mezzo necessario per la libertà. Nulla di più falso, Strel’cov passa un intero mese in cella, in attesa del processo. Al cospetto della stampa straniera presente al mondiale, il ct Kacalin inventa motivazioni di scarso rendimento per la sua assenza. Il KGB, invece, avvia la macchina del fango in patria. Le indagini dimostreranno che quella notte maledetta c’era anche il padrone di casa, un ufficiale sovietico, presente sul piano dove Edik e Marina dormirono insieme. Oltretutto con lo stesso gruppo sanguigno dell’attaccante della Torpedo. Ma al processo tutto ciò venne ignorato, così come la successiva lettera di Marina, scritta quattro giorni dopo la denuncia, che perdona Strel’cov e ne richiede il rilascio. Era innocente, ma nessuno volle credergli.

Il dibattimento fu una farsa, lo Stato voleva solo una punizione esemplare. Durò appena due giorni, 23 e 24 luglio. La sentenza fu impietosa: 12 anni di reclusione, successivamente abbonati a 7. A mille chilometri di distanza da Mosca, eccolo il Vjatlag. Gli inverni nella taiga raggiungevano picchi di quaranta gradi sotto lo zero, con il vento che taglia la faccia. Alle 6 del mattino l’altoparlante dà la sveglia-shocking, tutto il giorno a tagliare e trasportare tronchi, alle 7 di sera si va a scuola fino a mezzanotte, prima di crollare sfiniti sul letto. Fine della storia, gli europei del 1960 se li fa raccontare dall’amico e compagno di squadra in visita Viktor Sustikov.

La politica del disgelo, dopo la morte di Stalin, seppur intrisa di ipocrisia dal governo Krusciov, ebbe lentamente i suoi effetti, così, dopo 4 anni e 8 mesi, la prigionia di Strel’cov finì, ma ci volle un altro anno e mezzo, con la destituzione di Krusciov e l’insediamento di Breznev, affinchè il 28enne Eduard potesse ritornare in campo. Il 1965 fu un anno trionfale. Strel’cov fatica un po’ a tornare ad alti livelli, ma quando lo fa, la Torpedo non vola, fino a vincere il titolo nazionale, il primo della carriera per un eccitatissimo Eduard, che mette fine a sette anni di buio e dolore. 12 gol in 26 partite il suo score finale. Non aveva più la velocità e il dinamismo di un tempo, ma la classe era la stessa. Giocando sempre da centravanti, ma arretrando per partecipare alla manovra, Eduard la palla tra i piedi non la perde mai.

Noi italiani Strel’cov lo abbiamo visto di sfuggita, primo turno della Coppa dei Campioni ’66-’67. La Torpedo Mosca affronta a San Siro la Grande Inter di Helenio Herrera. Per Eduard non è solo una partita, è anche il ritorno alla libertà pura di poter valicare i confini russi e, finalmente, farsi vedere dal mondo, che conosceva a malapena la sua storia ed il suo talento. Pur ben figurando l’undici sovietico al cospetto dei bi-campioni d’Europa, il turno lo passano i nerazzurri e Strel’cov si vede negare la gioia del gol, nella gara di ritorno a Mosca, da un bel tuffo di Giuliano Sarti. Il mito, però, è tornato, la sua forza trascinatrice, i suoi gol, fanno la fortuna della Torpedo e della Russia e tutto fa pensare, finalmente, ad una sua partecipazione agli europei del ’68, proprio in Italia. E invece, ancora una volta, la sua figura scomoda ed il suo rapporto non idilliaco con il nuovo ct gli chiudono le porte della nazionale nel momento più importante. Disputerà altri due campionati in patria di grande livello, chiuderà con 17 reti nel ’68 e ben 21 nel ’69, nominato due volte consecutivamente miglior giocatore dell’anno. Dopo un infortunio al tendine d’achille, si ritira nel 1970, a 33 anni. Chiude la carriera con 99 gol in 222 presenze con la Torpedo, 25 gol in 38 partite con l’URSS. Un tumore al polmone se lo porta via il 22 luglio 1990, il giorno dopo il suo 53^compleanno. Sul letto di morte, confida alla moglie Raisa di essere innocente, di non aver mai fatto nulla per essere condannato. Era un argomento tabù in famiglia, ma, prima di andarsene, rende la sua prima vera confessione ufficiale. Ancora oggi, a trent’anni dalla sua morte, Ėduard Strel’cov aspetta di essere riabilitato.