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Il caso Mkhitaryan e il vero Azerbaigian che l’UEFA non ci ha mostrato

Nonostante gli sforzi fatti sul piano diplomatico, l’Arsenal si è dovuto arrendere: Henrikh Mkhitaryan non potrà prendere parte alla finale di Europa League contro il Chelsea a Baku. Troppo rischioso, per lui e la sua famiglia, entrare in Azerbaigian, nonostante l’ottenimento di un visto speciale: un Paese che ha rotto le relazioni diplomatiche con l’Armenia (oltre a provare a eliminare ogni presenza di cittadini armeni sul territorio azero) ormai da decenni per l’irrisolta questione del Nagorno-Karabakh, regione dichiaratasi indipendente nel 1991 e storicamente supportato proprio dagli armeni sul piano ideologico e materiale.

I Gunners perdono una pedina fondamentale per una gara decisiva per la propria stagione e l’ex Manchester United vede contemporaneamente sfumare l’opportunità di giocarsi una finale. Un’ingiustizia che dovrebbe far pensare tutti nel mondo del calcio, UEFA in primis, sulla necessità di mostrare tutto un altro atteggiamento nella scelta di dove svolgere eventi di rilevanza mondiale come una finale di coppa.

In realtà, il caso Mkhitaryan, già di per sé scandaloso, ha di fatto messo in mostra la vera realtà dell’Azerbaigian, troppo spesso ignorata dal mondo dello sport in generale. Un Paese considerato tra i peggiori al mondo per i diritti LGBTI, con un alto tasso di corruzione, che risulta 166esimo su 179 per libertà di stampa, dove i dissidenti e i religiosi musulmani sciiti vengono perseguitati. E, soprattutto, con alla guida un presidente come Ilham Aliyev, la cui famiglia è al potere da mezzo secolo, che ha imposto ormai da anni un permanente stato di polizia, oltre ad aver garantito la grazia a criminali condannati da corti estere come Ramil Safarov: un militare che nel 2004 assassinò con sedici colpi d’ascia il pari grado armeno Gurgen Margaryan a Budapest, venendo condannato a 30 anni dalla Corte ungherese prima della richiesta di estradizione in Azerbaigian. Dove venne accolto come un eroe nazionale con un mazzo di fiori, per poi essere promosso di grado, dotato di una nuova casa e ricompensato con otto anni di stipendio arretrati.

Negli anni, però, Aliyev è riuscito a guadagnarsi un posto di prestigio nel triste elenco di capi di stato o governanti che si affidano a politiche totalitarie e ripudiano il rispetto dei diritti umani internamente, ma che all’estero sono riusciti a mettere in bella mostra il proprio Stato in una vetrina di modernità e innovazione. Baku, in questo senso, è presentata ormai da anni come un vero e proprio gioiellino, tanto da aver ospitato numerosi eventi di fama internazionale: l’Eurovision Song Contest 2012, i Giochi Europei di atletica leggera nel 2015, il World Boxing Championships nel 2010, il Mondiale Femminile Under 17 nel 2017, dal 2016 il Gran Premio di Formula Uno e che, nel 2020, sarà una delle sedi degli Europei. L’UEFA, insomma, è soltanto l’ultima organizzazione del mondo dello sport a essere cascata a pie’ pari nell’ingannevole trappola creata dalla falsa immagine di Aliyev.

Fa quantomeno discutere, però, il fatto che la scelta di Baku come sede della finale di Europa League fosse arrivata appena 5 mesi dopo la scoperta di un Fondo Nero utilizzato da Aliyev per pagare chiunque potesse per promuovere un’immagine positiva del presidente e del suo Azerbaigian. Uno scandalo di cui non si poteva non essere a conoscenza e che, una volta di più, ha confermato l’assoluto disinteresse dello sport nel garantire un concreto rispetto della democrazia e dei diritti umani. Ma che, stavolta, finisce per pagare un calciatore, privato della possibilità di svolgere il proprio lavoro.