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ESCLUSIVA – Bettiol si racconta: “Così ho vinto il Fiandre. Il mio prossimo grande obiettivo? Il Mondiale di settembre”

7 Aprile 2019. Con un’azione da vero fuoriclasse, imbastita a 18 km dal traguardo finale e terminata in solitaria, Alberto Bettiol entra di diritto nella storia del ciclismo italiano. Vincendo – a distanza di 12 anni dall’ultimo successo italiano – una delle gare più intense e avvincenti, il Giro delle Fiandre. Una prodezza che ha meravigliato ma non sorpreso, viste le aspettative riposte da sempre nei suoi confronti. Del successo ottenuto in Belgio e di molto altro ancora ne abbiamo parlato proprio con Alberto Bettiol, strappandolo per qualche minuto alla preparazione che sta svolgendo (in altura, sul vulcano Teide) nell’isola di Tenerife.

Ciao Alberto, ormai è passato più di un mese da quel fatidico 7 aprile. 
Sì, questo mese è volato. La sensazione che mi porto dentro è che mi sento più responsabile nei confronti della gente, della squadra e del gruppo. Adesso tutti si aspettano tanto da me, quindi devo lavorare sempre di più per migliorarmi. La vittoria in Belgio mi ha dato più consapevolezza, perché so di aver vinto una corsa difficile e di averlo fatto interamente con le mie forze, oltretutto battendo i migliori. L’obiettivo è quello di fare sempre meglio, sento più pressione ma è normale. È una pressione bella, perché è segno che posso raggiungere questi risultati.

Quanto è cambiata la tua vita da quel giorno?
Eh si, è cambiata. E sinceramente solo in senso positivo. Adesso tutti mi conoscono ed è bello poter essere un esempio per i bambini e per gli appassionati. Certo, la presenza dei media era costante anche prima, ma adesso è aumentata ulteriormente. Ma basta saper gestire il tutto: l’importante è che al primo posto venga la bici, e io ho la fortuna di avere intorno gente che mi aiuta in questo intento. 

In che momento della corsa hai capito che la tua azione fosse quella giusta per vincere il Fiandre?
A dirti la verità me ne sono reso conto solo a cento metri dal traguardo, quando mi sono voltato e ho visto il gruppo lontano. Certo, le sensazioni erano positive mentre ero in fuga. Sapevo di essere scattato molto presto, ma non troppo, perché è quello il punto dove solitamente scattano i favoriti. Io stavo molto bene sul Kwaremont e ho voluto provare ad anticipare i tempi. Mai mi sarei aspettato di fare il vuoto e di mantenere questo distacco sul Paterberg. Anche perché al mio inseguimento c’erano tredici “leoni” scatenati, tra cui belgi e olandesi per i quali questa corsa è molto importante. È stato molto utile il contatto radio con l’ammiraglia e un mio compagno che mi tenevano aggiornato sulla situazione.

Dicevi del gioco di squadra. Quanto è stato importante e funzionale per la vittoria?
Per farti capire quanto sia stata importante tutta la squadra – non solo i compagni – ti racconto una curiosità. Solitamente abbiamo due direttori sportivi (uno alla guida dell’ammiraglia e uno alla radio), ma in quella occasione se ne è aggiunto addirittura un terzo. Siccome le strade belghe sono strette e c’erano difficoltà di connessione, abbiamo chiamato Wegelius, che in quel momento si trovava in Finlandia, per seguire la corsa dalla tv. Grazie al suo aiuto siamo riusciti ad avere una visione d’insieme migliore, monitorando tutto ciò che accadeva davanti a noi. 

Molti si chiedono perché tu non abbia corso la Parigi-Roubaix, visto il tuo stato di forma. Era già in programma o hai deciso di non forzare?
Mi sarebbe piaciuto correrla, ma non era in programma. A dicembre/gennaio, quando si stila il calendario della stagione, non si può sapere in che stato di forma si arriva a una corsa. E fare la Roubaix avrebbe significato sacrificare la Freccia del Bramante e forse anche la Amstel Gold Race, due gare che sento molto adatte a me. Vista l’esperienza vincente di quest’anno magari il prossimo proverò a includerla nella programmazione. 

Milano-Sanremo e Giro di Lombardia possono essere tuoi obiettivi futuri?
La Milano-Sanremo sicuramente lo sarà in un futuro prossimo; il Lombardia un po’ più avanti, perché comunque sia mi devo irrobustire ancora un po’ e migliorare in salita. Tant’è che lo vincono quasi sempre ciclisti adatti ai grandi giri. Ho bisogno di maturare per il Lombardia, così come per la Liegi-Bastogne-Liegi.

Un obiettivo più vicino è invece il Mondiale che si svolgerà a settembre nello Yorkshire. Tu hai già visionato il percorso, che tipo di corsa ti aspetti?
Sì, ho avuto la fortuna di visionare il percorso insieme al ct Cassani e ad altri tre corridori (Trentin, Colbrelli, Viviani, ndr). È molto lungo e impegnativo, tipico delle campagne inglesi. L’asfalto scorre poco, le strade sono ruvide e c’è un alto rischio di pioggia e vento. Nel circuito grande ci sono tre salite non lunghe ma ripide e poi si arriva nel circuito, ossia negli ultimi 100 km. Assomiglia a una classica come la Amstel. E proprio per questo potrebbe essere adatto alle mie caratteristiche. Naturalmente spero di convincere il ct a portarmi, ci tengo molto. Ma bisogna arrivarci in piena forma: è un Mondiale esigente, in cui si dovrà stare nelle prime posizioni ma allo stesso tempo dosare le energie.

Ma prima dell’appuntamento mondiale c’è il Tour de France. Con che spirito e con quali obiettivi parteciperai alla Grand Boucle?
Il primo obiettivo è la classifica generale con Rigoberto Uran. Cercherò di aiutarlo il più possibile, poi bisognerà vedere tappa per tappa se la squadra mi lascerà libero o meno di provare qualche offensiva personale. Vado lì anche per preparare il Mondiale, sarà un bel banco di prova anche perché lo scorso anno non ho fatto nessun grande Giro. C’è poi una crono, quella di Pau, che mi piace particolarmente. 

Tra l’altro tu vai particolarmente forte a cronometro.
Io nasco cronoman, infatti nel 2011 vinsi il titolo europeo nella categoria Juniores. È una specialità che mi piace ma che ultimamente sto coltivando meno, proprio per dedicarmi alla preparazione grandi classiche. Ma certe caratteristiche ti rimangono dentro, e poi se uno è in forma può fare bene in qualsiasi situazione. Alla Tirreno-Adriatico di quest’anno sono andato vicino a vincere (solo 3” di distanza da Campanaerts, ndr), per cui al Tour potrebbe essere un obiettivo serio.

Facciamo due passi indietro. Come fu entrare nel mondo del professionismo?
Io credo di avere una fortuna, ossia che le persone che mi stavano vicino prima sono le stesse che mi seguono anche ora. Il direttore sportivo degli juniores, quello dei dilettanti, il mio procuratore, il mio preparatore, per citare gli esempi più importanti. E questo è stato sicuramente positivo per me, in termini di crescita e di consigli. Tu arrivi da una nicchia, una squadra di dilettanti dove si proviene tutti dalla stessa regione. Corri solo due volte la settimana, la corsa più lontana è a 100 km da casa tua. Poi vieni catapultato nel professionismo e cambia tutto: io per due anni mi sono perso, ho dovuto aspettare per adattarmi a questa nuova dimensione.

E poi?
Poi capisci che in fondo il ciclismo è lo stesso, sia che lo pratichi da dilettante che da professionista. Ci sono delle cosine che devi fare sempre, indipendentemente dalla categoria. Devi essere del peso giusto, devi mangiare bene, dormire bene, riposare. Certo, sei costretto a prendere aerei, a parlare in inglese; poi la radio, la borsa del freddo, le riunioni. Ma di base sono le solite cose di prima. La chiave della mia crescita è stata questa: sono tornato indietro nel tempo, adattando le mie abitudini alla nuova e più complicata realtà. Un consiglio che di è non lasciarsi spaventare dal professionismo, perché le cose che contano sono sempre le stesse.

Secondo te l’Italia è svantaggiata dall’assenza di sue squadre nel circuito World Tour? È cambiato qualcosa rispetto al passato?
No, perché alla fine i corridori italiani ci sono sempre e non esiste squadra che non abbia almeno un italiano nello staff. Certamente è cambiato qualcosa rispetto al passato, ma la nostra lingua continua a essere una delle più parlate in gruppo. A cambiare, semmai, è stata la gestione: girano più soldi e questo fa sì che ci siano più aspettative. Quando io passai professionista, la Liquigas mi lasciò due anni più tranquillo, facendomi crescere gradualmente. Ora la pressione è maggiore e più immediata, c’è meno tempo per adeguarsi al professionismo.

Tu sei stato compagno di squadra di Moreno Moser. Che ne pensi del suo ritiro dall’attività a soli 28 anni?
Io dico sempre una cosa: il ciclismo non è un semplice sport, è uno stile di vita. Non si “gioca al ciclismo”, ti ci devi dedicare a 360° quasi tutti i giorni dell’anno. La bicicletta sa tutto quello che fai: come ti alleni, come mangi, come dormi, cosa fai la sera. Moreno stava attraversando un momento un po’ complicato, probabilmente non riusciva a concentrarsi del tutto. Si è fatto un esame di coscienza e ha preso una decisione sofferta. Mi dispiace molto, perché con lui ho condiviso molti anni.

Domanda secca. Chi vince il Giro d’Italia?
Secondo me Roglic. Lo vedo come uno che sbaglia veramente poco e con alle spalle una squadra molto forte. Nibali sicuramente darà battaglia, forse riuscirà a colmare il gap in salita, ma Roglic ha dalla sua la cronometro di San Marino. Da italiano tifo Vincenzo, ma la mia sensazione è che, nonostante la sofferenza della terza settimana, Roglic possa resistere. Ha dimostrato di essere una macchina da guerra e anche il come ha vinto il Romandia è un segnale di forza.