Napoli e quella voglia perenne di guardare al passato
“Si stava meglio quando si stava peggio”, “Ah i bei tempi di una volta”, “Certo che… quando c’era lui…”. Ecco, magari quest’ultima frase proprio oggi 25 aprile potrebbe apparire di stampo politico, non ne abbiamo alcuna intenzione, il riferimento è puramente calcistico.
A Napoli, città unica e con un’identità esclusiva nel mondo, i connotati di passione, entusiasmo, risate e malinconia si intersecano in maniera costante, vivono in un turbinio di rimescolamenti inattesi. Il calcio a Napoli è voglia di lasciare i problemi da parte, nella speranza di trovare nei risultati degli azzurri un riscatto sociale, a Napoli il lunedì è più dolce quando alla domenica si è vinto e tremendamente più insostenibile quando si è perso.
Ma, data l’importanza che si dà al mondo del pallone, si gioca molto a ergersi massimi esperti, a essere gli unici ad aver trovato i veri colpevoli o le soluzioni a un problema, a giudicare la bravura o meno di un calciatore o di un allenatore. Si fa quasi a gara a chi tira per primo una sentenza, per poi andarne fieri in futuro se i fatti la sorreggano e rinfacciarli al bar o sui social. Un adagio che si ripete da decenni ma che ha assunto sempre più un inasprimento dei contorni perché, vuoi per indole o per narcisismo da duri a morire, si è capito che criticare sin da subito sia molto più facile e conveniente che elogiare. E sì, perché se poi la critica si rivela infondata si fa la figura del “pasionario” che non si fida di nessuno, che poi torna sui suoi passi ben felice di farlo; se invece si elogia qualcuno o qualcosa che poi si rivela in parte deludente si viene trattati da “babbei creduloni” che di calcio capiscono poco o nulla.
In questo contesto particolareggiato si inserisce quella voglia irrefrenabile di elogiare il passato, poco memori che quando quello stesso passato era “presente” si faceva lo stesso tortuoso e masochista ragionamento. Qualcuno ha avuto anche il coraggio di rimpiangere i periodi pre fallimento della società, in quanto maggiormente “identitario”, così dicono. E allora il Napoli di Lippi e Simoni non era quello di Maradona, quello di Mazzarri (che ha raggiunto la Champions) troppo difensivista, quello di Benítez incapace con le “piccole”, quello di Sarri bello ma mai vincente e poco incisivo sul mercato e quello di Ancelotti, infine, venutosi a prendersi la pensione.
E quindi gli stessi detrattori di Benítez sono diventati estimatori del tecnico spagnolo durante Sarri e chi criticava aspramente il toscano ora lo rimpiange. Improvvisamente Jorginho, più volte criticato, è diventato il giocatore chiave sciaguratamente venduto, per non parlare di Hamšík: capitano con record di presenze e gol, raramente osannato e negli ultimi anni fortemente criticato perché quasi mai decisivo nei grandi match.
Un’abitudine davvero strana, a tratti stucchevole, che non aiuta in alcun modo l’intero movimento. A Napoli si sono commessi errori tecnici, di mercato, di gestione spogliatoio e di comunicazione. Molti dei quali imputabili a De Laurentiis e alle figure dirigenziali/societarie da lui scelte. Errori che, ci consentirete, è anche naturale commettere (comunicazione presidenziale a parte), prendersela con i protagonisti in campo in memoria di ciò che è stato prima è un giochino che non porta da nessuna parte, che anzi rischia di diventare una spirale di negatività da cui è difficile uscirne.